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Sándor Márai, Volevo tacere

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Sul sito di Sul Romanzo

Diario di un esule per “scelta”. “Volevo tacere” di Sándor Márai

Diario di un esule per “scelta”. “Volevo tacere” di Sándor Márai«Negli ultimi tempi i morti scrivono molto e tutte cose buone» disse Márai una volta a proposito delle pubblicazioni postume dei grandi scrittori ungheresi che lo avevano preceduto: Dezső Kosztolányi e Gyula Krúdy. Potremmo dire altrettanto di lui, perché da anni escono, uno dopo l'altro, i suoi bei libri in Italia, e prima ancora in Ungheria, dove dal 1948 in poi, data della sua emigrazione, vietò sia l'esecuzione teatrale sia la pubblicazione delle sue opere.
Márai, che alla nascita si chiamava márai Grosschmid Sándor Károly Henrik, ovvero qualcosa come Sándor Károly Henrik Grosschmid de Mára in italiano, si tolse la vita a San Diego in California il 22 febbraio 1989, all'età di 89 anni. Uno dei più tradotti scrittori ungheresi in italiano, era testimone di tutti i grandi eventi storici del Novecento ma non visse abbastanza per poter vedere la caduta del Muro di Berlino, e la fallace speranza che ne scaturì, dell'avvento di una società democratica nell'Ungheria. Dopo il regime autoritario di Miklós Horthy, reggente revisionista e filofascista d'Ungheria dal 1920 al 1944, e la successiva breve ma crudelissima parentesi nazista ungherese, nel 1948 l'Ungheria era di nuovo sotto dittatura, questa volta sovietica. In dittatura non si può parlare né tacere. Comunemente si dice che chi tace è complice, ma parlare apertamente, condurre un dialogo normale non è possibile. Con ogni probabilità quest'impotenza, questa impossibilità di comunicare spinsero Márai a lasciare per sempre l'Ungheria, una scelta particolarmente grave per uno scrittore, perché nell'esilio viene intaccato lo strumento principale d'espressione che è la lingua, e viene a mancare da sotto i piedi la terra di casa che è anche cultura e fonte d’ispirazione. «... so che non sarò mai in grado di scrivere una sola riga di valore in una lingua straniera – non tanto per mancanza di capacità, ma per la semplice ragione che fuori dall'atmosfera della sua lingua materna uno scrittore è un essere paralitico, uno storpio balbuziente...»

Márai, che con il suo antifascismo e anticomunismo è una figura pressoché unica fra i letterati ungheresi suoi contemporanei, sceglie l'esilio volontario, l'emigrazione, che secondo lui si divide in tre categorie: chi lascia la patria per stabilirsi all'estero, chi in patria sceglie l'emigrazione interna, il rifugio nell'estraneità, e chi da emigrato emigra dall'emigrazione nella solitudine. Lui ha vissuto le tre fasi e l'ultima non poteva che sfociare nella morte.
Diario di un esule per “scelta”. “Volevo tacere” di Sándor Márai
Le memorie, i diari di Márai dal titolo Confessioni di un borghese videro la luce in due volumi nel 1934 e nel 1935 (in italiano in un unico volume a cura di Marinella D'Alessandro, Adelphi, 2014), mentre Terra, terra!..., che doveva essere il terzo volume, fu pubblicato per la prima volta a Toronto nel 1972 (in italiano nel 2005 da Adelphi nella traduzione di Katinka Juhász), senza però i primi due capitoli che i lettori ungheresi hanno potuto prendere in mano per la prima volta soltanto nel 2013 in un volume autonomo dal titolo Volevo tacere, titolo scelto dall'editore ungherese (Helikon), perché l'autore non aveva lasciato indicazioni in merito.
Il testo nasce nei primi anni dell'emigrazione, fra il 1949 e il 1950, e arriva in Ungheria nel 1997 come parte del lascito di Márai.
«Volevo tacere. Ma il tempo mi ha chiamato e ho capito che non si poteva tacere. In seguito ho anche capito che il silenzio è una risposta, tanto quanto la parola e la scrittura. A volte non è neppure la meno rischiosa. Niente istiga alla violenza quanto un tacito dissenso.»

Iniziano con queste parole i due capitoli che ora formano un libro e costituiscono il bilancio del regime di Miklós Horthy, del suo “fascismo neobarocco”. Sullo sfondo Márai riepiloga la storia dell'Ungheria degli ultimi secoli, e ripercorre anche la strada che porta all'affermazione del fascismo e del nazismo. In particolare finiscono sotto la sua lente d'ingrandimento i dieci anni a partire dall'Anschluss, anche se la disamina parte da molto più lontano e focalizza soprattutto l'esistenza e il ruolo della borghesia, il ceto che fin dalla sua nascita è considerato depositario di progresso e cultura.
«Solo nell'Alta Ungheria e in Transilvania, nel complesso risparmiate dalla conquista turca [dal 1526 al 1686, NdR] poté svilupparsi un vero ceto borghese che costituiva anche una forza sociale nel senso occidentale del termine. […] La nazione uscì demoralizzata da quei centocinquant'anni: era rimasto il territorio, un popolo ungherese esiguo e decimato, erano rimasti i discendenti degli immigrati svevi, slavi, serbi, ed era rimasto un rifugio meraviglioso, la lingua ungherese. […] Me ne stavo seduto nel mio bello studio a Buda, e scrivevo in ungherese, ma per chi?... Allora non sapevo ancora che quel giorno [l'11 marzo 1938, quando le truppe di Hitler invasero l'Austria e la Germania proclamò l'annessione dell'Austria alla Germania – NdR] era iniziata la rovina degli ultimi quadri della cultura ungherese, di coloro che dopo il dominio turco – sia pure a intermittenza – l'avevano costruita e mantenuta in vita: era la rovina della borghesia ungherese.»
Diario di un esule per “scelta”. “Volevo tacere” di Sándor Márai
Perché l'autore è convinto che le dittature di qualsiasi colore non mirino a cancellare la classe borghese quale rappresentante una certa forza economica, bensì il suo intelletto, il suo ingegno.

Il libro è una resa dei conti con la Storia impregnata di forte senso della realtà, che a sua volta è supportata da solida moralità e da una preparazione non comune. Márai delinea altresì il ritratto di tre dei politici ungheresi più influenti della sua epoca che conosceva di persona: Pál Teleki, László Bárdossy e István Bethlen. Per qualche presumibile difetto di memoria la ricostruzione di alcuni episodi storici è imprecisa, ma le conclusioni sono sostanzialmente valide a distanza di molti decenni. L'autore è restio, non vorrebbe che il suo documento accusatorio finisca in mani straniere e rovini l'immagine dell'Ungheria custodita oltreconfine; questa esitazione non è altro che amor di patria, perché un vero patriota non idolatra la sua nazione, ma la vorrebbe senza difetti.

Al di là di una convincente visione storica, Márai dispone di capacità profetiche, a volte sa essere addirittura un vero e proprio vate, come in questo passaggio:
«Esistono ancora parecchie persone, perfino in posizioni di una certa responsabilità, convinte che una qualche forma di nazismo possa costruire un argine al bolscevismo.»
Diario di un esule per “scelta”. “Volevo tacere” di Sándor Márai
Qui fustiga il nazionalismo assurdo in un paese multietnico da secoli, parlando anche dell'Ungheria odierna:
«...saltava sempre fuori qualche spirito ipocrita e ottenebrato che negava a molti di noi, me compreso, il diritto a dirci ungheresi perché i nostri avi non erano giunti nel paese mille anni fa attraverso il valico di Verecke...»

Si sentiva giustamente nel diritto di parlare della storia ungherese,
«... perché sono ungherese, anche se i miei antenati sono immigrati dalla Germania trecento anni fa, ne ho il diritto perché sono nato ungherese, l'ungherese è la mia lingua materna, e tutti i miei sentimenti e il mio destino individuale mi legano all'Ungheria.»

Si può non essere d'accordo con tutte le tesi di Márai, si possono adottare altri approcci e arrivare in parte ad altre conclusioni, ma una ricostruzione veritiera e approfondita della Storia ungherese di quell'epoca dovrà sempre tenere in buon conto Volevo tacere, questa pregevole opera resa in italiano nella bella e ben curata traduzione di Laura Sgarioto.


Quando i miti si ribellano: storia di Anna Édes

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L'articolo su Il Sole 24 Ore

Quando i miti si ribellano: storia di Anna Édes

Ci può essere un testo in cui è chiaro sin dalla prima riga che qualcosa di terribile accadrà, eppur non avere alcuna ansia di scoprirlo, ma aver piuttosto voglia di godersi ogni riga, sillaba per sillaba? Pubblicato per la prima volta in Italia nel 1937 (Baldini & Castoldi) è da qualche mese di nuovo in libreria per le Edizioni Anfora Anna Édes di Dezső Kosztolányi, nella traduzione di Andrea Rényi e Mónika Szilágyi, con la postfazione di Antonella Cilento ( pp. 272, 17 euro) . L’edizione del 1937 era infatti uscita in versione ridotta forse per motivi di censura.
È questo un vero gioiello della letteratura ungherese che aiuta a riscoprire il valore di un maestro assoluto. Di Kosztolányi, Magda Szabó ha detto: «Ha fatto magie. Era come un mago che connetteva mondo a mondo, un vero Merlino». E Sándor Márai: «È stato Kosztolányi a dire che un capolavoro deve essere scritto come si porta a termine un delitto. E ogni giorno lui commetteva un delitto del genere, più o meno grande».
La trama: siamo a Budapest, quartiere tranquillo, che conserva i segni di un antica ricchezza, l’eco di una pregressa nobiltà. Il tempo è quello del primo dopoguerra; tempi incerti e instabili. Tempi i cui l’appartenza è mutevole come la politica. L’identità sociale è determinata dal potere di turno e dalla capacità degli individui di plasmarsi. Come sa bene Kornél Vizy.
«Era già una persona diversa. Non si reputava martire del bolcevismo, forse piuttosto vittima del vecchio regime che, ingrato, più volte lo aveva messo da parte. Tastò la tessera del sindacato nella tasca della giacca. Fortunamente non l’aveva strappata come aveva pensato di fare nel pomeriggio».
Tra rivoluzioni e controrivoluzioni, in un contesto in cui tutto è mutevole, in cui il passaggio dalla pace alla guerra, dalla ricchezza alla povertà si può consumare nel volgere di una notte, l’angoscia principale di Vizy e della moglie sembra essere l’urgenza di trovare la cameriera perfetta. Tutto crolla, ma nell’appartamento dei Vizy gli eventi sono condizionati dai patemi della signora Vizy e dalla sua ansia di trovare la miglior serva. Nessuna è all’altezza. Nessuna è docile abbastanza. Nessuna è brava abbastanza. Fino a quando il custode del palazzo di casa Vizy non suggerisce il nome di Anna, una parente cresciuta in campagna. Del perché l’uomo insista tanto ad imporre la ragazza poco sappiamo, intuiamo forse una smania di controlla. Una tensione tutta politica . Chissà. Capiamo solo che a lui e alla famiglia poco importa di Anna, se non nel considerarla una strumento. Per spiare i Vizy?
«Li univa la parentela priva di emozioni della gente povera, per la quale significava assai poco il legame di sangue per mancanza di bei ricordi condivisi, si viveva solo l’uno accanto all’altro, presi sempre dal lavoro, chiusi in se stessi, lontani e impenetrabili l’uno per l’altro».
L’ingresso di Anna a casa Vizy segna una trasformazione. Ancora più eclatante perché non è segnata da grandi eventi ma da una quotidianità che scorre con lentezza e con crudeltà. La giovane perfetta nei suoi gesti subisce la vessazione di chi crede di poter tutto e che la ricchezza determini il possesso della vita altrui. Anna è lodata e tenuta al guinzaglio. Anna riceve regali (di riciclo) ma viene considerata come il migliore, il più bello, il più funzionale, degli oggetti di casa. In breve tutti parlano delle virtù di Anna, ma altrettanto in breve della vita di Anna non resta nulla. Arriva l’amore ed è solo fulmineo. Non che Anna non sia accorta abbastanza - e consapevole - per non sapere di non avere speranze (innamorarsi del nipote dei padroni), è che quando l’unico accudimento svanisce il gelo penetra nelle ossa. Allora la volontà di Anna prende una piega insospettabile. E accade - senza dramma - la tragedia.
«Quando la vennero a prendere per la prima volta, Anna si fece il segno della croce, raccomandò l’anima a Dio credendo che l’avrebbero subito condotta al patibolo e impiccata immediatamente. La portarono davanti a un signore magro e leggermente calvo che sulla cravatta comprata confezionata portava una spilla e sul pollice peloso una fede d’oro. Anna credeva che quel funzionario diligente e poco remunerato della giustizia fosse un signore molto importante e molto ricco. In seguito capì che non era una persona malvagia. Le si rivolgeva con delicatezza e benevolenza e lei si abituò a lui, anzi lo trovava persino noioso perché le faceva tante domande».
La bellezza di queste pagine è tanto nella capacità di mostrare quanto in quella di alludere. Ciò che non vediamo è chiaro ed incisivo al pare di quel che vediamo. L’efficacia del mistero è nella sua sostanza ma anche ed altrettanto nella capacità di Kosztolányi di costruirlo. Narrazione che procede per particolari, in cui gli oggetti sulla scena contano quanto i protagonisti che li animano.
La pubblicazione anzi la ri-pubblicazione di Anna Édes fa parte di un progetto molto affascinante e che merita spazio e cura in libreria: volgere lo sguardo ad Est e portare in Italia le voci più interessanti di quel mondo. «Idealmente ci riferiamo al concetto geografico di Centro Europa dello storico polacco Oscar Halecki. Se riportassimo quei confini sulle carte attuali, considerando i paesi che hanno subito l'influenza di questa conformazione, i paesi di nostro interesse divengono quindi: Germania, Austria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia, Slovenia, Ungheria, Romania (Transilvania), Croazia, Serbia, Ucraina, Lituania, Bosnia Erzegovina» .
© Riproduzione riservata

L’assenza è ciò che dà ordine a un’opera, intervista a Péter Nádas

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di Nóra WinklerWMN, traduzione e nota introduttiva di Andrea Rényi
L'articolo su Grafìas
Nóra Winkler e Péter Nádas ©Csiszér Goti/WMN – Goti Photography

Péter Nádas (o meglio Nádas Péter, come bisognerebbe scrivere secondo la regola che vale non solo per la lingua ungherese – ma anche per quella giapponese, per esempio – che vuole l’anteposizione del cognome al nome) nasce il 14 ottobre 1942 a Budapest, primogenito di una coppia di ebrei appartenenti alla piccola borghesia ungherese che lo fa battezzare con rito protestante. I genitori muoiono prematuramente e lui e il fratello minore di sei anni vengono affidati alle cure di parenti. Nádas interrompe gli studi superiori, che porterà a termine solo da adulto, impara l’arte della fotografia e trova impiego come fotografo presso una rivista. Nel 1962 inizia la sua relazione con la giornalista Magda Salamon, che sposerà nel 1990. Il suo primo volume, La Bibbia e altri racconti[1]una raccolta di racconti, esce nel 1967, ma il vero riconoscimento arriverà con il romanzo, terminato nel 1972 e pubblicato solo cinque anni dopo, Fine di un romanzo familiare[2]. Fra il 1974 e il 1979, lavora come redattore e revisore al periodico pedagogico “Gyermekünk” (Nostro figlio). Dal 1979, svolge la professione di giornalista e fotografo, e si dedica alla stesura del suo primo grande romanzo, Libro di memorie[3], composto prevalentemente nei suoi ritiri in campagna, prima a Kisoroszi e poi nel piccolo villaggio, abitato da poche decine di anime, di Gombosszeg. Portato a termine Libro di memorie nel 1985, comincia la stesura del suo secondo monumentale romanzo, Párhuzamos történetek (“Storie parallele”). Trova però il tempo per occuparsi anche di opere più brevi e i suoi lavori vengono regolarmente tradotti in diverse lingue. La critica ungherese e quella internazionale, sempre più attente e interessate al suo lavoro, gli assegnano premi man mano più prestigiosi. Nel 1993 viene colpito da infarto, ma riesce a rimettersi e riprende la sua attività di scrittore. Nel 1995 viene insignito del Premio di Lipsia. In Francia nel 1998 Libro di memorie è il miglior libro straniero dell’anno. Nel 1999 Rowohlt, storica casa editrice tedesca, pubblica tutte le sue opere in edizione tascabile. Contemporaneamente si afferma anche come fotografo, con diverse mostre in Europa. Nel 2005 esce, dopo diciotto anni di lavoro, Storie parallelein tre volumi. Ormai Péter Nádas è uno scrittore universalmente acclamato dalla critica e molto amato dal pubblico. Da anni il suo nome compare regolarmente fra i potenziali candidati al Nobel per la letteratura. Nel 2017 ha pubblicato in due volumi la sua ultima fatica, un meraviglioso romanzo autobiografico di 1212 pagine intitolato Világló részletek (“Dettagli illuminanti”). In Italia, Péter Nádas ha avuto una storia editoriale avventurosa, in gran parte ancora da scrivere e in attesa di un meritato e, si auspica il meno tardivo possibile, rilancio. 
Quest’anno, in un contesto di forte concorrenza, Világló részletek (“Dettagli illuminanti”), il memoir di Péter Nádas, è stato insignito del premio Aegon [nel 2017 l’ambito riconoscimento era invece andato a un altro autore monumentale della letteratura ungherese – che dopo l’assegnazione del Man Booker International Prize nel 2015 ha riscosso una rinnovata attenzione sia editoriale che di pubblico anche fuori dall’Ungheria –, László Krasznahorkai, per il romanzo (ancora inedito in Italia) Báró Wenckheim hazatér című (“Il ritorno a casa del barone Wenckheim”)].
Világló részletek dal canto suo è un’opera davvero imponente e anche il tavolo più solido appare intimorito sotto il peso delle sue quasi 1300 pagine.
Nádas mi riceve nella sua casa nel vecchio quartiere della Fortezza, nucleo originario di Buda[4], in mezzo a oggetti che per lui hanno un significato speciale, alle sue opere e a scaffali colmi di libri. Una scrivania rivolta verso la luce che proviene da due finestre occupa il centro della stanza nella quale vengo accolta. È uno spazio tranquillo, arioso e ordinato che è un po’ come ci si immagina Nádas stesso. Prima di ogni cosa, mi mette in mano il secondo volume di Világló részletek, perché ricorda che l’ultima volta che ci siamo incontrati mi aveva fatto dono, accompagnato dalla sua dedica, solo del primo libro.

Servono anni per scrivere un romanzo monumentale. Cos’è che spinge a farlo?
Nessuno desidera affrontare tanto lavoro, ma alla fine è l’opera che lo decide. Lo osserva anche Thomas Mann nei suoi diari: voleva scrivere una novella e nacque la Montagna magica, quello che sarebbe dovuto essere solo un racconto si trasformò nel Doctor Faustus. Certi materiali esigono molto spazio. Io c’entro, ma relativamente. E quei miei libri che lei vede così mastodontici sono stati sottoposti a energiche sforbiciate. Cerco di tagliare tutto il superfluo, e quello che vede è solo ciò che rimane.

All’inizio non sospetta nemmeno quanto lungo sarà il testo?
So dove sono diretto ma non ho idea dello spazio che ci vorrà. Viene fuori strada facendo, giorno dopovilaglo-reszletek-nadas giorno. In letteratura, nella Bibbia, nella scrittura, sono interessanti i dettagli. La trama in quanto tale è una novità. Basta vedere i romanzi americani di un tempo: Moby Dick è un libro corposo, i romanzi di Theodore Dreiser sono in due volumi. La brevità, il susseguirsi di dialoghi e descrizioni, è un’esigenza imposta agli autori da Hollywood. Una tendenza nuova rispetto alla scrittura. Una parte dei lettori lo gradisce molto certo, ma non è una peculiarità della narrativa, bensì della sceneggiatura.
Anche leggendo i migliori come Hemingway o Fitzgerald si ha la sensazione di vedere un film. Un’esigenza imposta agli editori a partire dagli anni Venti che a loro volta l’hanno trasferita agli scrittori ed è diventata una moda diffusa in tutto il mondo. Ma non tutti amano le semplificazioni, io per esempio decisamente no, e fra l’altro non tutti ne sono capaci.

Semplificare significa falsificare la ricchezza e la complessità che la vita rappresenta?
Non direi così, perché l’uomo vive un certo tipo di complessità e se la si ritrova in una novella, come accade in Cechov, va anche bene. Più raramente capita di trovarla anche in Hemingway.
La compattezza è poesia. La prosa è diversa, dispiega, esamina, approfondisce, guarda dietro. Osserva gli episodi, la loro concatenazione, i protagonisti, i grandi flussi narrativi e la loro interazione. Questo è il compito della prosa. Che può anche arrivare a condensare, ma mancherà sempre di qualcosa, e non rispecchierà la vita nella sua qualità di flusso epico. Mentre la narrazione, lo sforzo di raccontare sono state inventate proprio per questo.

Questa è un’affermazione ingannevole, perché quando raccontiamo una storia la revisioniamo: tagliamo gli elementi privi d’interesse, ne mettiamo in risalto altri; apportiamo delle modifiche.
Sì, e lo scrittore pur essendo dopo qualche decennio di attività un esperto, incontra ugualmente sorprese fino all’ultimo momento. Le accettiamo, ne prendiamo conoscenza, non le temiamo. Per esempio, nelle grandi favole dell’antichità come quelle di Esopo o delle Mille e una notte, ci sono notevoli divagazioni. E sono lì per tenere sveglia l’attenzione, cosa che può essere possibile soltanto se si evita la monotonia.

nadas_peter_grafiasLe divagazioni, i mondi interessanti che si spalancano uno dopo l’altro, servono a scacciare la noia del lettore?
Al lettore servono soprattutto perché possa rendersi conto della ricchezza della vita. Sa che è così, ma non ha tempo di occuparsene finché deve mantenere i figli, deve lavorare, deve conseguire dei risultati. Quindi è compito dello scrittore trovare il tempo necessario.


E lei ce l’ha presente, ne è consapevole per tutto il tempo della scrittura? Affinché emergano questi ricchi dettagli della vita che il lettore possa sperimentare?
Assolutamente sì. Mi ci concentro su sedici ore. O meglio su centosedici.

Qual è il numero che più si avvicina alla realtà?
Diverse migliaia. Quando si scrive un testo così corposo come Világló részletek, il cervello umano diventa un computer. Redige contemporaneamente testo e immagini. Sa quando, dove e che cosa mettere, e che risposte deve ottenere dal punto di vista delle armonie. Sa dov’è diretto il ritmo e quali soluzioni troverà una volta arrivato. Significa gettare continuamente uno sguardo in avanti e uno all’indietro, tornare indietro nelle pagine e consultare le note.
Con Esterházy [Péter Esterházy (Budapest 1950-2016) tra i maggiori scrittori contemporanei ungheresi] ci divertivamo molto quando ci raccontavamo degli appunti geniali presi su pezzetti di carta gelosamente custoditi e poi mai più consultati. A lavoro finito, rispuntano fuori questi foglietti, li consultiamo e constatiamo sbigottiti che cosa di molto meglio avremmo potuto fare, capiamo cosa sarebbe potuto nascere. Mentre il libro è già stato stampato e pubblicato.
Non è un problema. Fa parte delle cose che si comprendono e accettano da vecchi: che quello che dimentico deve essere dimenticato. Merita di essere dimenticato. Sarà pure stato un buon episodio, ma ormai non si inseriva più nel sistema, e non se ne sente alcuna mancanza.

Con questo romanzo, il compito non era forse trovare proprio questi episodi? I piccoli episodi che gravitano intorno ai grandi ricordi importanti, quelli custoditi dalla radice del ricordo, che da soli non emergerebbero mai, perché secondari?
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©Péter Nádas
La memoria non funziona in questo modo. Lei parla di radici, io invece li chiamo cespugli, do un nome a quello che sta sopra, lei invece a quello che sta sotto.
Succede che per caso mi viene in mente un’idea, una frase, un’immagine, un odore – come Proust ricordava il sapore delle madeleine, un dolce semplicissimo –, che per l’effetto del cespuglio a sua volta mi fa tornare in mente tutto il resto. Da quel momento in poi è inarrestabile. Ci vengono in mente tanti ricordi di tante cose e la memoria corre in tante direzioni. Lo scrittore deve gestire la memoria, perché la letteratura non è la vita ma è la vita delle parole; e la vita del testo è una vita diversa. Tuttavia, il modello si trova nel pensiero, nella serie di associazioni di idee. Che funziona nello stesso modo per tutti. Nessuno ricorda in modo diverso.

Ha detto che il testo sarà tanto lungo quanto deve esserlo. Da dove arriva però la motivazione per comporlo? In quale parte del corpo ha origine la sensazione di doverlo scrivere?
Vi partecipano tutte le parti del corpo, compresi gli organi. Fra l’altro, limitatamente al tempo del lavoro, avvengono anche importanti trasformazioni.
Ad esempio, per trasformarsi in donna occorre una sensibilità, una percezione diversa. Nel senso biologico della parola. In quel caso avviene una vera e propria trasformazione. Non sto scherzando.
Forse soltanto mia moglie potrebbe raccontarlo, ma anche lei può notare solo i segnali esterni. parallel_stories_peter_nadasNaturalmente capita di rado. Quando lavoravo a Párhuzamos történetek (“Storie parallele”), mi trasformavo in donna per settimane, assumevo una percezione femminile su molte cose. Contribuivano le ricerche, le letture, gli interrogatori che facevo a amiche e conoscenti femminili su determinati argomenti. Interrogatori dettagliati ai quali non erano mai state sottoposte prima, ai quali si sottraevano o rispondevano volentieri. Dopodiché ero io a dovermi immedesimare, dal parto alla penetrazione. E fino a un certo punto non era impossibile. Tuttavia erano insiti anche grandi errori. Per fortuna avevo delle lettrici che mi avvertivano se con la fantasia prendevo una direzione sbagliata e quindi immancabilmente maschile.
Una volta Éva Ruttkai [celebre attrice ungherese del secolo scorso (Budapest 1927-1986)] mi dimostrò in quante parti del corpo è possibile generare una voce. Cominciò sopra la testa e poi continuò per tutto il corpo. Ovunque scaturiva una voce: dalla pianta del piede, dal centro della gamba, voci diverse da quelle emanate dal petto o dalla gola. Un attore dovrebbe sapere generare una voce con ogni parte del corpo. Fa parte del suo mestiere.

È possibile individuare l’origine del desiderio che porta a dedicarsi alla scrittura per così tanto tempo?
Non lo so. Io ho cominciato a scrivere a undici anni e non ho mai più smesso. Ecco. Punto.
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Péter Nádas @Csiszér Goti/WMN – Goti Photography
Scrive tutti i giorni? 
Tutti i giorni. Anche oggi, prima del vostro arrivo, ho buttato giù degli appunti.

Tiene un diario?
No. No, non ne ho mai tenuto uno.

Sarebbe stato uno spreco di tempo?
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Péter Nádas ritratto in una foto di famiglia. ©Péter Nádas
Leggo volentieri diari, è un genere letterario molto interessante. Non mi sono però mai sentito importante al punto da prendere annotazioni su di me. Nelle annotazioni c’è sempre qualcosa che parla agli altri. Ci sono diari molto egoisti. Thomas Mann ha lasciato dieci volumi in cui racconta di tutto, anche delle questioni più intime e più astratte. Aveva una consapevolezza di sé che io non ho. Io so scrivere solo mascherato, da attore. Mi serve una sorta di trasposizione.

Ho l’impressione che l’intera esistenza di uno scrittore sia spesa al servizio di qualcosa. Anche se è un lusso poterselo permettere, altrimenti forse non avrebbe continuato a farlo dall’età di undici anni.
Una vita di lusso in quanto faccio solo quello di cui sento la necessità, il bisogno, e l’ho fatto per tutta la vita.

Anch’io intendevo questo.
Questo è il lato lussuoso. Per il resto è schiavitù.

Appunto, dicevo che è un servizio.
La religione si è appropriata del termine servizio, si tratta comunque di una sorta di consapevolezza del proprio dovere. Che è imprescindibile. Ogni giorno lavorativo ha una fase introduttiva, in cui si raggiunge una certa altura, oppure non si arriva da nessuna parte. Oppure si arriva almeno a correggere quello che si è scritto il giorno prima. Lavoro, gioia, ineluttabilità, tante cose assieme. Non ci sono giorni di festa né si parte per andare in vacanza. La sera devo fare attenzione all’alcol per non compromettere l’indomani mattina. Bisogna sapere quando è il caso di interrompere e quando invece bisogna proseguire. Quali legami si possono stringere e quali no, in base allo stato del lavoro. Si conduce una vita monacale. Si rimane fuori da molte cose che per gli altri sono del tutto normali.
Quando è stato pubblicato il Libro di memorie mi sono divertito molto perché qualcuno mi ha dato dell’erotomane. Può darsi, dicevo, stando seduti interi anni alla scrivania. Anche il marchese de Sade sedeva alla Bastiglia e scriveva quell’opera pregna di terrificante fantasia che aveva molto a che fare con la realtà, ma non certo con la sua.
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©Péter Nádas
Questa vita è fatta anche di rinuncia attiva: ne è sempre consapevole?
Rinuncia, sì. Automutilazione nell’interesse di qualcosa. Con i lavori molto estesi la cosa più difficile è mantenere lo stesso livello. C’è il ricambio delle cellule umane ogni sette anni, quindi le persone cambiano. Anche se non esistono trasformazioni radicali e si rimane quello che si era a quattro anni, continuiamo a cambiare, e le nostre vite sono suddivise in fasi. Io questo non posso permetterlo.

Allora è stato deciso: lei vivrà in eterno.
No, no, anzi, consumiamo abnormi quantità di energie. Gli scrittori di prosa di solito non vivono a lungo.

Diamo un’occhiata alle unità minori, alle parole; per esempio da dove viene la parola briftasni?
Dalla lingua di Budapest, dove nella metà dell’Ottocento si parlava ancora il tedesco, o almeno due se non cinque, ma in realtà un numero indefinito, di lingue. Quando si iniziava a costruire, alla fine dell’Ottocento, la città diventava plurilingue perché arrivavano i ruteni, gli slovacchi e portavano le loro lingue che contribuivano a questa mescola. In particolare i termini tecnici che usiamo ancora oggi – o almeno fino a ieri, perché la mia visione non arriva all’oggi –, insomma che usavamo fino a ieri erano prevalentemente di origine tedesca. Anche se li consideriamo come se fossero ungheresi oppure magiarizzati.

Possiamo trovare un paragone che rispecchi il progredire di questo libro? Abbiamo parlato di cespuglio o radici dei ricordi, ma c’è questa continua apertura a nuove strade e questo incessante ritorno indietro, quindi la comparazione con il cespuglio regge solo fino a un certo punto, l’accostamento sarebbe calzante solo se scoprissimo che sottoterra tutte le radici si congiungono. Cosa si può dire di quest’esperienza narrativa, delle sue congiunzioni, che sono come…? Ce lo dica lei.
Strutture differenti in movimento che si congiungono. Se una voluminosa opera in prosa non dispone di una struttura interna tale da permettere al lettore di procedere con cognizione di causa, finisce con il ridursi in polvere. Vale anche per l’autore, neppure lui riesce ad andare avanti. Queste strutture devono essere più pesanti, più importanti del materiale che portano. Uno scrittore deve sapere di struttura più di quanto appaia. Si dice, anche se la formulazione non è abbastanza precisa, che emerge solo la punta dell’iceberg, il resto nuota in profondità.peter_nadas_cover

Sì, neppure questa formulazione è precisa, perché qui si tratta di connessioni, di legami incrociati.
Di ordini. Ci sono molti tipi di ordini. Uno riguarda le scelte lessicali, un altro tutto quello che ho tralasciato, che non ho incluso nel testo. I lettori di Világló részletek reclamano molte assenze. Cose che non ho inserito nel testo (ride). Così, su due piedi, non saprei dire quali, ma è il risultato di riflessioni.
Con Miklós Mészöly [(Budapest 1921-2010) scrittore, drammaturgo e saggista] e Péter Esterházy era possibile discutere molto bene di questioni professionali, e con Esterházy ci siamo detti molte volte che un testo non porta in sé soltanto quello che c’è scritto, ma anche tutto quello che è stato lasciato fuori.

Dunque quello che manca è stato omesso di proposito.
Sì, e come nella musica, le omissioni hanno un certo ritmo, seguono un certo ordine. Così come le frasi hanno un ordine, ce l’hanno anche le frasi monche. Grácia Kerényi, studiosa di filologia classica, dopo un po’ di tempo ha notato che io non usavo gli articoli. “Peti” (ero molto giovane all’epoca) diceva indignata, “Peti, non si possono non mettere gli articoli!”. “Grácia, anche gli articoli possono essere omessi. Se serve, si può fare a meno anche dell’articolo”.

Anche nelle nostre relazioni sappiamo di che cosa non dobbiamo parlare. Ma quei temi sono presenti nel suo libro, eccome.
Anche l’assenza produce un ordine. Pure la questione di cui non posso parlare perché non deve essere toccata. Ci sono testi completamente privi anche del più lontano accenno all’aspetto fisico delle persone. Non sappiamo come sono fatte, tuttavia ce ne facciamo un’idea partendo dalla loro voce, dal tono.
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©Péter Nádas
István Eörsi [(Budapest 1931-2005) scrittore, traduttore, poeta ma anche politologo ungherese] ha notato una volta qualcosa che mi sfuggiva: descrivevo con cura maniacale degli oggetti piuttosto insulsi rispetto al punto di vista della vicenda, di un personaggio o di una trama. Per me invece non lo sono per niente.
Mobili, stanze, atmosfere, viste, panorami da finestre, immagini della natura. Esterházy osservava invece che mi occupavo sempre della natura, mentre lui gridava ai quattro venti che la odiava. Chi legge le sue opere se ne rende conto: non trattava mai la natura, al massimo prendeva in prestito da me le descrizioni naturali. E lo faceva con grande piacere. Ma lui non se ne occupava.

La natura è ben reale, lo scrittore invece si intrattiene per lo più nella propria testa dove crea un mondo, seduto davanti al computer e…
Io non scrivo al computer.

Allora come?
Scrivo a mano. Io devo vedere i miei personaggi. Devo vedere quello che fanno e devo vedere il paesaggio in cui si inseriscono, la stanza, i colori. Lo schermo, le font, mi disturbano.

La calligrafia invece no?
Scrivo automaticamente. Su un pezzo di carta in grembo, mentre guardo fuori dalla finestra.

Per lavoro crea mondi spirituali e anche noi sostiamo nel nostro mondo immaginario quando leggiamo. Mentre, come forma di riposo, non si dedica a qualcosa di fisico, di reale? Che ne so, come piantare dei fiori, fare la pasta, lavorare l’argilla?
Invidio terribilmente gli artisti che creano con le mani. Hanno un rapporto completamente diverso con tutto. Tuttavia anch’io lavoro con la materia. Devo capire com’è fatta.
Da giovane, provavo davanti allo specchio le espressioni facciali, i gesti che mi premevano in quel momento. Esattamente come gli studenti di pittura alle lezioni di anatomia che vogliono vedere cosa genera cosa, che cosa muove i muscoli. Ho dovuto impararlo. Ora non lo faccio più, ma in passato dovevo sperimentare casi estremi per verificare. Provare dei ruoli. Spero che non mi abbia visto nessuno dalla finestra.

Invece è accaduto?
C’era stato un tempo in cui prendevo in affitto a Kisoroszi una camera, la cosiddetta camera pulita di una casa contadina, ed è capitato che la signora Zsuzsi, la vecchia che me la affittava, faceva vedere a qualche privilegiato cosa stessi facendo. In paese non capivano come trascorressi intere giornate. Una volta mi confessò di avermi spiato insieme ad altri.

È divertente immaginare persone in punta di piedi sotto la finestra nel tentativo di sbirciare dentro.
Vedevano soltanto me al tavolo seduto a fare nulla. Al massimo scrivevo, oppure stavo in piedi a un banco e battevo a macchina. Era tutto qui. Per loro non era lavorare.

In effetti.
E soprattutto non lavoravo nessuna materia. Un tempo a Kisoroszi aveva lavorato anche uno scultore, Miklós Melocco, che martellava la pietra calcarea. Quello sì che era lavoro ben identificabile.

I romanzieri raccontano spesso che una volta centrato un personaggio, lo osservano a distanza di qualche passo, affinché il personaggio stesso possa descriversi e scrivere la propria trama, seguendo una propria verità.
Sì, quando capita un personaggio del genere va solo assecondato.

Ma se lavora con i ricordi personali, come può essere colto di sorpresa?
La sorpresa è sempre necessaria. Un giorno senza è una gran brutta giornata. È molto interessante, perché mi avvio da varie direzioni verso qualcosa e queste vie, queste direzioni si incrociano. Tuttavia non sono io a decidere gli incroci, ma solo le direzioni. L’incrociarsi di due vie sembra un fenomeno naturale. In realtà gli incroci cui assisto sono sorprendenti. Se però nel testo questa serie di sorprese non assume una qualche forma di ordine, il testo si mette a zoppicare o a oscillare.

Világló részletek è un intreccio di ricordi. Se riguardassimo a questa mattina, pensa che la ricorderemmo in modo diverso, lei e io?
Certamente. Ne sono sicuro. Abbiamo vettori diversi, per così dire. Portiamo cose diverse da fonti diverse. L’unica cosa che abbiamo davvero in comune è la lingua. Com’era la parola che chiedeva?

Briftasni.
Briftasni. A me per esempio non verrebbe mai in mente di interrogarmi sulla sua origine perché la nostra è una lingua fatta a strati, che è semplicemente la lingua di Budapest, ma so in quali quartieri usano la parola briftasni al posto di “portafogli”. Nel settimo, nell’ottavo e nel sesto. Non negli altri. Un termine usato soprattutto in provincia. Gli artigiani e i commercianti tiravano fuori il briftasni. Le classi sociali più elevate non lo tiravano fuori, perché pagavano qualcun altro affinché lo facesse per loro, oppure lo prendevano senza dire nulla, in nessun caso pronunciavano la parola briftasni, al limite parlavano di portafoglio o portamonete.

Questa parola evoca mio nonno nato a Tereske, nella regione Fejér, e vissuto nel sesto distretto di Budapest. Esattamente come l’ha descritto.
Bene. Un ricordo maschile. Le donne non avevano briftasni, ma soltanto portafogli.

Si ricorda quando anni fa registrammo un’intervista a New York? Mi incuriosisce sapere che cosa si ricorda di quell’occasione, per capire se abbiamo ricordi molto diversi fra noi.
Ricordo parecchio. I ricordi sono diversi perché ognuno di noi ha un diverso punto di vista. Mi racconti lei i suoi e io li commenterò.

Ricordo il suo albergo, la stanza dove facemmo le riprese sembrava un salone, il rivestimento color oro spento della poltrona, lei poggiato allo schienale.
Per esempio io l’albergo non me lo ricordo.

Il ricordo più vivido è il suo pullover di lana. Da allora, quando penso a lei, la vedo sempre con quel pullover addosso. Ricordo anche che ne parlammo, che il collo a V del pullover di lana è un codice. Noi vediamo un raffinato capo d’abbigliamento, borghese e ben tenuto, ma poiché avevo letto le sue opere sapevo della sorprendente densità di significato presente sotto la piacevole superficie. Per nascondere la quale lei non ricorre all’inganno, ma la rende per così dire indossabile, celando così al mondo il tumulto interiore. Mi viene in mente sempre questa sua immagine. Una vita ricca, sensibile, di buona qualità, in versione tessile.
Capisco cosa intende. Da quando ne ho memoria mi sono sempre vestito in questo modo, quindi per me è naturale. Anche oggi. Mi metto la giacca solo per le grandi occasioni.
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Nóra Winkler e Péter Nádas @Csiszér Goti/WMN – Goti Photography
Concludo con una domanda cerimoniosa, ma va bene anche una sua risposta in pullover. L’umanità, la sua incredibile capacità di accettare, che potrei definire come una vera e propria forma di affetto, che è presente in tutti i suoi libri, ovviamente non è il risultato del lavoro, deve esserle congenita. Come fa a guardarsi intorno con tanta comprensione ed empatia?
Non posso parlarne senza mettere me stesso al centro della questione, anche perché io non la sento in questo modo e non lo dico apposta. Secondo me si tratta di dovere professionale. Senza il quale la faccenda non funziona. Sento decisamente alienante la letteratura in cui lo scrittore si erge sopra i protagonisti, in pratica li disprezza in quanto stupidi, cretini, incapaci. Perché significa che non si è avvicinato abbastanza a loro, oppure che non è stato all’altezza della situazione. E per questo non è riuscito ad avvicinarli. La prossimità mi piace molto, il che comporta tutta una serie di cose, anche non permesse. Una sorta di sapere poi chiamato conoscenza a posteriori, del retroscena. Che per me è invece a priori.





[1] Péter Nádas, La Bibbia e altri racconti, traduzione di Andrea Rényi, BUR, Milano 2009.
[2] Péter Nádas, Fine di un romanzo familiare, traduzione di Laura Sgarioto, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2009.
[3] Péter Nádas, Libro di memorie, traduzione di Laura Sgarioto, Alexandra Foresto, Vera Gheno e Krisztina Sándor, Dalai, Milano 2012.
[4] Budapest nasce nel 1873 dalla fusione di tre città, Buda, Óbuda e Pest, ciascuna delle quali aveva il suo centro storico. La Fortezza era quello di Buda.


Ferenc Molnár, La piccola pasticceria

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PRIGIONIERI, UNA PASSIONE AMOROSA

Ferenc Molnár, “La piccola pasticceria”

di  16 novembre 2018
Dopo sessantasette anni dalla prima e cinquantaquattro dalla seconda edizione italiana a cura della casa editrice Dall’Oglio la riedizione di questo breve romanzo rende omaggio a ben tre letterati. Il primo è Ferenc Molnár (1878-1952), l’autore ungherese che il lettore italiano conosce sicuramente per I ragazzi di via Pál, ma forse anche come l’autore di molte opere teatrali tuttora in cartellone nei teatri italiani, oltre che di qualche romanzo tradotto in italiano ma sfortunatamente non più disponibile in commercio. Gli altri due sono una coppia di traduttori, l’ungherese Balla Ignácz – Ignazio Balla (1885-1976) per gli italiani – e Alfredo Jeri (1896-1962). Pubblicato con il titolo Rabok (Prigioneri) nel 1907 a Budapest, e riedito una seconda volta nel 1928 in un unico volume insieme a un altro breve romanzo intitolato Ismerősök (Conoscenti), La piccola pasticceria (Elliot, 2018) è considerato un’opera minore giovanile nella vasta produzione letteraria dell’eclettico Molnár. Tant’è vero che l’ultima edizione ungherese risale al 1928, e di questo testo si trovano cenni solo nelle storie della letteratura ungherese più complete. Eppure meriterebbe la riscoperta anche in patria.
L’esile volume al quale forse sarebbe stato meglio lasciare il titolo originale, Prigionieri, ha in serbo parecchie sorprese piacevoli, a partire dalla trama ben tesa, fino all’intento di rompere gli schemi con una storia d’amore anticonformista, e ai pochi ma ben delineati caratteri che popolano le poco più di cento pagine. Una struttura narrativa dove tutto è ben dosato, presentata con un linguaggio raffinato, reso più efficace e convincente dalla revisione a cura della redazione di Elliot, perché la traduzione risale 1951 e risentiva del passare degli anni e della tecnica traduttiva imperfetta che caratterizzava il pur prestigioso operato della coppia di traduttori.
La piccola pasticceria è frutto di quel periodo narrativo di Molnár che lo prepara al genere in cui saprà dare il meglio di sé: il teatro. Scritto contemporaneamente al suo intramontabile I ragazzi di via Pál, il romanzo si colloca fra le sue ultime prose impregnate ancora di sentimentalismo, con sullo sfondo Budapest, città natale che ha reso sempiterna protagonista delle sue opere nel primo ventennio di produzione artistica.
Un giovane avvocato fresco di laurea e fidanzato della diciassettenne figlia ben educata, benpensante e conformista del direttore di un penitenziario di Budapest difende una cameriera di una pasticceria accusata di furto dell’incasso. L’ha incaricato la stessa imputata in virtù del cordiale rapporto che intercorreva fra i due come cliente e inserviente della pasticceria. Durante un colloquio in prigione la cameriera svela però il suo amore per l’avvocato, una passione per la quale è disposta a tutto e che piano piano lo conquista, tanto che lui sarà costretto a infrangere l’etica e le norme di comportamento della buona società borghese. Molnár tornerà a rielaborare questo tema con una trama molto simile trent’anni dopo, all’apice della sua carriera, in un’altra opera narrativa intitolata L’ussaro verde.
Se questo libro è arrivato a noi è merito di Ignazio Balla, fra le due guerre chiamato amichevolmente ambasciatore della cultura ungherese dal grande Kosztolányi: era il periodo d’oro del romanzo d’intrattenimento in Italia, un genere che diversi scrittori ungheresi coltivavano ed esportavano con grande successo. Ciò era possibile grazie al valido aiuto di traduttori, fra i quali il più noto era Balla, ungherese trasferitosi in Italia ormai quarantenne, che per migliorare la resa in italiano si faceva aiutare dal madrelingua Jeri. A sua volta Balla era anche un fecondo scrittore,  traduttore da altre lingue e, per uno scherzo del destino, fiero sostenitore del fascismo per tutta la sua vita, malgrado le sue origini ebraiche e le inevitabili persecuzioni. Giunse persino a scrivere una monografia sul duce, che conosceva personalmente. Al netto di questa peculiarità, Balla contribuì in ampia misura alla diffusione della letteratura ungherese in Italia, scegliendo e promuovendo più di venti romanzi di cui firma la traduzione con Jeri o altri cotraduttori.
(Ferenc Molnár, La piccola pasticceria, Traduzione di Ignazio Balla e Alfredo Jeri, Elliot, 2018, pp. 122, € 12.50)

Roberta Gado ci racconta "Piano D" di Simon Urban

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Parola ai traduttori. Roberta Gado ci racconta “Piano D” di Simon Urban

Parola ai traduttori. Roberta Gado ci racconta “Piano D” di Simon UrbanTraduttrice dal tedesco di venticinque titoli e innumerevoli estratti per Keller, Voland, Viceversa Letteratura, BCD, Meridiano Zero, Ponte alle Grazie e Casagrande, insignita del Premio italo-tedesco per la traduzione letteraria, Roberta Gado è un’autentica mediatrice linguistica e culturale. Collabora con le principali fondazioni svizzere e il Babel Festival, co-dirige il Centro per la traduzione della prestigiosa Fiera del Libro di Lipsia, città in cui vive da alcuni anni con la famiglia, senza perdere di vista la letteratura italiana che patrocina presentando autori italiani in Germania in italiano e in tedesco. Laureata in Filosofia, Roberta Gado ha imparato il mestiere di traduttrice da autodidatta, diventando anche docente di corsi universitari di traduzione dal tedesco.
«Altro che Riunificazione! La DDR ha tentato la Rianimazione e ce l’ha fatta. Come, lo racconta il pubblicitario Simon Urban in un giallo geniale per inventiva e profondità d’analisi. Una traduzione difficile e (almeno per me) divertentissima. Ci ho aggiunto in calce un glossario dei termini più esotici, chissà se è utile: fatemelo sapere!»Roberta presenta sul suo sito con queste parole una delle sue ultime fatiche, Piano D di Simon Urban (pubblicato da Keller). Parole che hanno svegliato in me la curiosità per il libro che ho trovato affascinante, e il desiderio di sapere di più della traduzione e della traduttrice. Roberta si è subito dichiarata disponibile e mi ha fatto avere le sue risposte con congruo anticipo rispetto al termine stabilito. Più tedesca dei tedeschi, direbbe qualcuno.

Piano D di Simon Urban è stato un caso letterario in Germania, meritatamente, perché unisce il dilettevole all'istruttivo e ha il pregio dell'ottima scrittura. Può raccontarci com'è arrivato in Italia?
È una storia lontana, la racconto al passato remoto. Ricevetti Plan D prima che uscisse in libreria in Germania, nel 2011: la responsabile dei diritti dell'editore Schöffling, Kathrin Scheel, me lo aveva mandato immaginando che mi sarebbe piaciuto e sperando che lo proponessi in Italia. Quella volta però l’editor di una grande casa editrice mi precedette: si innamorò subito del libro e io appresi a partita ormai chiusa che lo avrebbe pubblicato Mondadori. Segnalai interesse spiegando la mia competenza in materia, mi proposero una prova di traduzione che discussi con Helena Janeczek, ai tempi addetta alla germanistica. Ricordo ancora benissimo la telefonata in cui mi fece pelo e contropelo sulla traduzione – fu una discussione preziosissima – e poi mi assegnò il lavoro.
Ancora non sapevo che lo avrei svolto nell'anno più micidiale della mia vita, tra divorzio, trasloco internazionale, inserimento delle mie figlie nelle scuole tedesche e cancro del nuovo compagno. Ricordo una sera in cui ero così stanca che il libro mi cadde nella vasca da bagno e si trasformò in un coso ondulato ingestibile che decisi di tenere a futura memoria. Ma consegnai puntualmente – detesto chiedere proroghe, preferisco concordare una scadenza congrua dall’inizio o rifiutare il lavoro in favore di altri –, la revisione andò a meraviglia, il pagamento arrivò puntualissimo, tutto bene. Se non che il libro, Piano D, non uscì e se ne persero le tracce; nel frattempo l’editor che lo aveva fatto acquistare aveva cambiato posto e addio. Ma con tutta la fatica che mi era costato – ricordavo troppo bene lo stato post-avvocato-e-pre-chemio in cui mi ero messa al computer certe mattine –, non ero disposta a darlo per perso. Provai a convincere l’ufficio legale di Mondadori a restituirmi i diritti sulla (mia...) traduzione, dato che erano decorsi i termini del contratto tra gli editori e Schöffling aveva ritirato la licenza a pubblicare il libro: invano. Mondadori si dichiarò però disposta – salto volutamente un paio di passaggi – a vendere la traduzione a un altro editore. Un amico come Roberto Keller si dichiarò subito disposto a prenderla: e così nel 2017 mi sono ritrovata a rivedere a distanza di anni una mia traduzione come se fosse di un’altra, è stata un’esperienza interessante.
Parola ai traduttori. Roberta Gado ci racconta “Piano D” di Simon Urban
Ha conosciuto anche Simon Urban, l'autore? Ce lo può presentare?
In tutti questi anni sono stata in contatto sia con Schöffling sia con gli altri traduttori del libro – che nel frattempo avevano pubblicato la loro versione e facevano il tifo per me – sia naturalmente con Simon Urban, il tifoso più paziente e accanito. Abbiamo diverse cose in comune: entrambi siamo appassionati di DDR pur venendo da fuori – lui è cresciuto nell'Ovest della Germania e io in Italia, credo di capire bene il suo sguardo sul Paese e la sua storia, le intenzioni che sottende –, entrambi siamo arrivati alla letteratura attraverso un altro tipo di scrittura, quella pubblicitaria. Amiamo i giochi di parole, la storia (anche) come storia di prodotti, destino di marchi e idee commerciali. Ricordo un periodo in cui ci mandavamo foto a slogan che trovavamo geniali, ci scambiavamo idee su come ricreare certi effetti. Non siamo ancora mai riusciti a incontrarci di persona, ma abbiamo un ottimo rapporto. Lui adora le graphic novel ed è stato felicissimo di vedere i disegni di Roberto Abbiati negli interni di copertina, ha voluto subito anche le cartoline che abbiamo dedicato ai personaggi del libro.
Parola ai traduttori. Roberta Gado ci racconta “Piano D” di Simon Urban
Il libro è il felice incrocio di un crime novel e un romanzo sociale, divertente, ironico, che a tratti sconfina nella satira. Che cosa l’ha convinta di più in Piano D? Qual è il personaggio che secondo lei ha colpito più degli altri nel segno?
L'idea alla base del libro, declinata anche in chiave economica e "corredata di accessori", mi è parsa subito divertente e più profonda di tante analisi socio-economiche classiche. Questa idea è poi sviluppata in una lingua ricchissima, con una voce letteraria ben precisa e mai piatta, diversa dallo stile un po' stereotipo di certi gialli e distopie. Simon Urban si diverte a ogni invenzione senza perdere di vista la profondità e la prospettiva, e come me ama le trame avvincenti. A differenza di lui io però non amo i libri lunghi, e quando un romanzo supera le trecento pagine penso automaticamente a dove si sarebbe potuto economizzare, forse perché sono una lettrice paziente ma lentissima. Dunque se fossi stata l'editor dell'originale avrei proposto di sacrificare qualche pagina, ma per il resto lo considero un libro molto riuscito, intelligente, brillante.
Quanto ai personaggi, trovo ben congegnata la combinazione tra l'agente dell'Est (Wegener), l'agente dell'Ovest (Brendel) e un commissario della vecchia scuola come Früchtl; immagino che aiuti anche le lettrici e i lettori italiani a orientarsi nel panorama Est-Ovest tra ideali comunisti, socialismo reale e capitalismo stramaturo, anzi marcio.
Parola ai traduttori. Roberta Gado ci racconta “Piano D” di Simon Urban

Parola ai traduttori. Roberta Gado ci racconta “Piano D” di Simon Urban
Il lettore italiano medio ha scarsa confidenza con il mondo che rappresentava la DDR, la Germania dell'Est, e difatti lei gli è venuta in soccorso anche con un glossario molto utile in fondo al libro. Ci sono dei momenti, dei passaggi nel libro in cui ha temuto di non riuscire ad accorciare abbastanza la distanza fra il lettore e il testo originale?
Il problema mi è stato presente da subito, con l'aggravante che temevo di non saper valutare bene l'entità di questa distanza, visto che coltivo un rapporto personale e familiare intenso con la DDR da venticinque anni: ho imparato il tedesco nell'ex Germania dell'Est, ho sposato in successione due tedeschi dell'Est e dunque tutta la mia vita adulta – me ne rendo conto adesso scrivendolo! – gravita intorno a certi temi. In questo senso è stata una buona prova del nove rivedere la traduzione a sette anni di distanza, tutti trascorsi in Germania con l'intento di “integrarsi” e di restare, considerando che avevo scritto la prima versione ancora imbevuta di Italia, appena tornata nella Germania orientale dopo diversi anni di assenza: mi ha stupito constatare la tendenza a spiegare di più nel 2018 che nel 2011, come se conoscere sempre meglio la DDR accentuasse la convinzione che "un italiano non può capire": invece sì che può, sono temi universali, continuo a ripetere a me stessa, fa parte del mio compito, e mi sono fidata dei lettori.
Nelle mie intenzioni il glossario non ha tanto la funzione di spiegare termini altrimenti incomprensibili, quanto di offrire un livello di lettura in più, un approfondimento per chi lo desidera. Non va dimenticato che il Muro è caduto ormai tanti anni fa e che anche i lettori tedeschi dai venti ai quarant'anni, soprattutto se cresciuti all'Ovest, sono privi dei riferimenti necessari a capire tutto – ma molto si intuisce e forse è sufficiente.
Uno dei problemi-chiave della traduzione è che, trattandosi di un'ucronia, molti termini e giochi di parole non ricalcano realtà esistenti e dunque ricercabili, ma sono costruiti sulla loro versione distopica che, in quanto inesistente al di fuori del romanzo, il lettore curioso non può trovare su internet. Il personaggio di turno, per esempio, non fa battute sul KaDeWe, acronimo di Kaufhaus des Westens, ovvero i grandi magazzini simbolo dell'opulenza occidentale visibili da Berlino Est, ma sul KaDeO, l'equivalente orientale (Kaufhaus des Ostens) che esiste solo nella DDR "rianimata" di Piano D: per capire le battute al lettore italiano manca un passaggio, se non due. Però la prima cosa che impara un'adattatrice pubblicitaria è: vietato spiegare le battute in traduzione perché non fanno ridere. Bella sfida, no?
Parola ai traduttori. Roberta Gado ci racconta “Piano D” di Simon Urban
Per concludere ci piacerebbe sapere cosa ne pensa della situazione della letteratura tedesca contemporanea tradotta in italiano: è ben rappresentata, oppure ci sono autori importanti, eppure assenti dagli scaffali italiani?
Mancano diversi autori importanti, ma soprattutto molte delle opere esistenti non ricevono adeguata diffusione tra lettori e studenti universitari (diversi dei quali stentano a leggere un libro tedesco in lingua originale). Il programma dell'editore Keller in questo senso è notevole e nei prossimi anni si arricchirà di voci fondamentali, come quella di Wolfgang Hilbig, per restare in tema di DDR.

Per la seconda foto, copyright: Marika Brusorio.
Le foto da n. 3 a n. 5 sono disegni di Roberto Abbiati e raffigurano tre personaggi del libro, rispettivamente Wengener, Hoffmann e Karolina.

L'articolo sul sito di Sul Romanzo

Finalmente un'opera in italiano di Melchior Lengyel

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Finalmente un'opera in italiano di Melchior Lengyel

Il 12 gennaio è una data fortunata per la drammaturgia ungherese e non solo: in questo giorno, nel 1878, vide la luce Ferenc Neumann, dalla maggiore età Ferenc Molnár (1878-1952), probabilmente il letterato ungherese più famoso grazie al suo intramontabile romanzo I ragazzi di via Pál, ma soprattutto alle sue pièce teatrali come Liliom, in cartellone da decenni in molti teatri in tutto il mondo. Due anni dopo, sempre il 12 gennaio, nacque Menyhért Lebovics (1880-1974), divenuto celebre con il nome Melchior Lengyel, autore di prosa ma anche drammaturgo e sceneggiatore, cui dobbiamo la paternità del Mandarino meraviglioso, uno dei caposaldi del balletto moderno con la musica di Béla Bartók, e di alcuni capolavori cinematografici di Hollywood fra le due guerre, tra cui Ninotchka, realizzati con i registi e gli autori più in voga come Otto Preminger, Ernst Lubitsch, Gregory Peck, Greta Garbo, Marlene Dietrich, solo per citarne alcuni.
Pur avendo vissuto a Roma per oltre un decennio – nel 1963 gli viene conferito il Grand Prix –, Melchior Lengyel rimane pressoché sconosciuto al pubblico italiano, mentre è ben nota la sua discendenza italiana: sua figlia Anna (1922-2015) era sposata all'economista, politico e accademico Manlio Rossi-Doria, quindi Marco Rossi-Doria, il maestro di strada nonché politico, è suo nipote.

Finalmente in italiano un’opera di Melchior Lengyel
Pochi mesi fa la casa editrice Aracne, con la collaborazione di Nina Di Majo, regista, attrice e sceneggiatrice italiana, ha dato alle stampe la commedia in tre atti di Lengyel intitolata Beniamino e le cose dell'altro mondo, tuttora inedita in ungherese (titolo originale: Benjámin, avagy a másik világ dolgai), che però secondo il catalogo OPAC era stata rappresentata già al Teatro Argentina di Roma nel 1930. La traduzione italiana è della moglie dell'autore, Lidia Lengyel nata Gerő, e il testo è stato curato da Nina Di Majo che ha arricchito il volume della sua nota informativa, seguita dalla nota sull'autore di Marco Monreale.
Finalmente in italiano un’opera di Melchior Lengyel
Una commedia sofisticata, un triangolo amoroso che un po' per volta si trasforma in un quadrangolo, con sullo sfondo rari cenni ma molto amari, critici, alla situazione politica ungherese del momento, che vede il cancelliere Dollfuss allearsi con l'ammiraglio Horthy, capo del governo ungherese filofascista. Questo particolare sul piano cronologico colloca la pièce fra il 1932 e il 1934, più tardi rispetto alla data della prima rappresentazione italiana, quindi si suppone che sia un'aggiunta successiva.La trama, ambientata fra Budapest, un treno che trasporta i protagonisti su lidi sereni e  località in voga, riserva poche sorprese ma è raccontata con garbo e con una buona dose di conoscenza dell'animo umano. I dialoghi sono plastici al punto che il lettore ha la sensazione di assistere a uno spettacolo teatrale, e questo libretto è infatti una provocazione, un invito a portare la commedia in scena.
Finalmente in italiano un’opera di Melchior Lengyel
Far conoscere questo pezzo di Lengyel è un'operazione indubbiamente positiva, che però lascia un pizzico di amaro in bocca a quelli che conoscono la sua vasta e interessante produzione. Questa non è la sua commedia migliore, e nasce dunque spontaneamente la nostalgia, il senso di mancanza di altre sue opere che sfortunatamente non sono reperibili in italiano, e potrebbero invece essere portate in scena.


Concludo quindi ringraziando per questo grazioso libretto, nella speranza di poter vedere tradotte e vedere nei teatri altre pièce di Melchior Lengyel, che era uno dei protagonisti di un'epoca indimenticabile nella storia del teatro e del cinema. Se poi si potesse leggere in italiano anche il romanzo sulla sua vita, l'autobiografico Életem regénye (Libro della mia vita), un'impareggiabile testimonianza storica e culturale...

Sopravvivere a orrori e privazioni. “Una storia ungherese” di Margherita Loy

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Come tutti gli espatriati, anch'io aguzzo la vista quando da qualche parte vedo scritta la parola che definisce le mie origini, quindi nella fattispecie “ungherese”; figurarsi se è addirittura stampata nel titolo sulla copertina di un libro. Una storia ungherese è un titolo dall'indubbio fascino, anche se la curiosità è immancabilmente accompagnata da perplessità: quanto sarà credibile, autentica, veramente ungherese, questa storia? Dopo poche righe arrivano già due sorprese molto gradite: Kinga, la ventenne protagonista, scrive il suo diario che è la costola del romanzo, in via Attila, ai piedi del quartiere della Fortezza che l'autrice, Margherita Loy, lascia in originale, ossia Vár, e il periodo descritto è l'assedio cinto dall'Armata Rossa intorno alla Budapest occupata dai tedeschi, cioè l'inizio del 1945, e i mesi successivi alla liberazione prima della capitale, poi di tutta l'Ungheria. Il caso ha voluto che il quartiere fosse della mia infanzia e gioventù, e l'arco di tempo è estremamente interessante perché per motivi di opportunità politica non è mai stato elaborato a sufficienza nella letteratura ungherese.
Kinga è figlia di un pittore friulano e di una magiara discendente della nobiltà di provincia. Anni prima il padre aveva abbandonato lei, sua madre e suo fratello, ed era tornato in Friuli. Per sopravvivere, i tre rimasti a Budapest sono andati a stare per un anno e mezzo dalla nonna materna nella contea di Szabolcs, al confine con l'Ucraina. Entrati in possesso di mezzi finanziari, i tre tornano a Budapest dove presto scoppia la guerra. Il passato e il presente scorrono in parallelo nel diario che Kinga scrive in italiano durante l'avanzata dell'Armata Rossa verso Budapest, l'occupazione della città, e i primi mesi di libertà che vedono i tre trasferirsi in Friuli. Non è una riunificazione della famiglia perché il padre di Kinga non è più in vita, ma la fuga dalla città distrutta e dalle tragedie personali che solo cambiando paese sperano di poter lasciare definitivamente alle spalle. Il primo capitolo si conclude con la sistemazione dei protagonisti, e il secondo capitolo, quasi un prologo per lunghezza e per densità, annoda i fili. Chiude una sorprendente e funzionale postfazione in cui l'autrice, di origine romana, figlia della scrittrice Rosetta Loy, a sua volta scrittrice di libri per l'infanzia e qui agli esordi come romanziera, racconta la genesi del romanzo.
Sopravvivere a orrori e privazioni. “Una storia ungherese” di Margherita Loy
Kinga scrive il diario per sopravvivere agli orrori e alle privazioni che anche i civili sono costretti ad affrontare. Nelle giornate disperate si rifugia nei ricordi dei tempi della dimora di campagna della nonna a Zsurk, dove si era innamorata di un giovane ebreo. Quando non vi è più nutrimento per la bocca si nutre del ricordo della complicità affettuosa con la nonna e dei momenti di una felicità mai conosciuta prima e che vedremo non potrà assaporare mai più. Ho scelto di non svelare null'altro della trama per non compromettere il piacere della lettura, per non rovinare le scoperte che il romanzo ha in serbo per il lettore.
Sopravvivere a orrori e privazioni. “Una storia ungherese” di Margherita Loy

Margherita Loy porta avanti la trama con rigorosa precisione e una scrittura potente resa credibile e convincente dalla ricchezza dei dettagli che rispondono a domande anche molto difficili. Con poche eccezioni noi, lettori dell'Italia odierna, abbiamo avuto l'immensa fortuna di non essere stati toccati da guerre, quindi se non siamo costretti non ci riflettiamo sopra e meno che mai ci immedesimiamo, eppure la pace, la democrazia si apprezzano molto di più se si è consapevoli delle conseguenze del contrarioUna storia ungherese (pubblicato da Edizioni di Atlantide) non è quindi solo un buon romanzo con una bella trama, ma è anche dispensatore di verità storiche da tener presente, oggi più che mai, in Ungheria e altrove.
Sopravvivere a orrori e privazioni. “Una storia ungherese” di Margherita Loy


Da ungherese ho letto questo libro con un certo stupore dovuto innanzitutto al coraggio di Margherita Loy: di solito la nostra lingua neppure indoeuropea ma ugro-finnica spaventa, e la nostra storia complessa non si presta a facili interpretazioni. Scrivere Una storia ungherese non poteva che essere stata un'impresa davvero ardua e molto impegnativa, che la scrittrice ha assolto bene. Da madrelingua e oriunda della zona di Vàr ho rilevato pochi errori e tutti veniali, che certamente non disturbano né fuorviano il lettore italiano. Quindi non mi rimane che fare i complimenti e ringraziare Margherita Loy per le ore liete trascorse con Una storia ungherese.
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“Cuori fanatici” di Edoardo Albinati

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Un libro che somiglia a una matrjoška. “Cuori fanatici” di Edoardo Albinati

Un libro che somiglia a una matrjoška. “Cuori fanatici” di Edoardo AlbinatiIl vocabolario Treccani definisce fanatico «chi è mosso da passione forte ed esclusiva, da entusiasmo per un'idea, per un partito, o anche semplicemente da simpatia eccessiva verso una determinata persona o da eccessivo zelo nell'esercizio di un'attività”, o “di ciò che rivela fanatismo». A Roma «la parola è usata con senso più generico, attribuita a chiunque nelle sue manifestazioni o nelle sue mansioni si mostri eccessivamente zelante, smanioso, o dia comunque prova di esagerazione in tutto ciò che fa, e anche persona boriosa, che ama mettersi in mostra.» Nel suo nuovo romanzo Cuori fanatici (Rizzoli) Edoardo Albinati, scrittore e sceneggiatore romano e Premio Strega 2016 con La scuola cattolica, presenta in dodici capitoli alcuni archetipi che ben illustrano il lemma. Sono un capannello di personaggi che ruotano intorno a due giovani amici, Nanni e Nico, in un'epoca molto vicina eppure molto lontana, che sono gli anni Ottanta. Prima però Albinati fa dono al lettore di un prologo dedicato alla città meridionale, sottofondo in gran parte dei ritratti e camei più o meno grandi che compongono questo libro, e dall'identità assai facile da scoprire.
Riassumere la trama può essere fuorviante in quanto non può che essere riduttivo. A tratti si ha l'impressione di guardare dentro un caleidoscopio, di apprezzare più le ramificazioni rispetto al filo conduttore, di farsi distrarre dalla maestria della scrittura che incorpora tecniche anche molto diverse fra loro, e di non riuscire a focalizzare i contenuti con la dovuta attenzione. Cuori fanatici ha tante chiavi ed è un'opera che per essere apprezzata appieno richiederebbe più di una lettura. Abbraccia e respinge, esercita una forza magnetica, confonde e chiarisce.
I due protagonisti sono in realtà punti di partenza, più che occupanti a pieno titolo dello spazio narrativo. Sono Nanni Zingone, professore in un liceo romano, e Nico Quell, consulente editoriale, «una specie di cortigiano della letteratura», presso una casa editrice al Nord. Nell'economia del romanzo i loro spazi non sono equamente divisi, non hanno lo stesso peso nella trama, e a volte sono solo un tramite, quasi un pretesto, per parlare di altro e di altri.
Un libro che somiglia a una matrjoška. “Cuori fanatici” di Edoardo Albinati
Nanni ci viene presentato subito come un fanatico dell'insegnamento: «...la loro parata d'istinto era frutto dell'addestramento condotto da Zingone sotto forma di impietosa pioggia di stimoli, una tormenta dell'attenzione che si placava solo al suono della campanella. Sopravvivere a una di quelle lezioni voleva dire aver qualcosa da rimarginare. I superstiti si riscuotevano e contavano le ferite e ne andavano un po' orgogliosi.»
Nico invece è figlio di un ambasciatore gambizzato, perché quelli erano anche gli anni di piombo, del fanatismo del tipo devastante. A suo modo è fanatico anche l'ambasciatore Quell: «L'orgoglio, la tenacia, forse la sua stessa insensibilità ebbero la meglio sulla sofferenza e isolarono Quell dal consesso umano.» Quell è anche lo strumento del narratore per tirare le somme del terrorismo, in questo caso di “sinistra”:
«Nei ragionamenti che ruminava per spiegarsi il perché fosse finito proprio lui nel mirino, Quell non si sognava di entrare nel merito dell'ideologia in nome della quale gli veniva sparato: gli sembrava irrilevante, ingenua, fondamentalmente immeritevole di essere considerata o analizzata, così come non si presta troppa attenzione ai vaneggiamenti di un barbone o al gioco di bambini che si contendono tappi di bottiglia come fossero un tesoro. Strategie illusorie e violente poste al servizio di ideali strampalati e anacronistici. In Europa, il comunismo si avviava al tramonto nei suoi regimi pomposi e truculenti, e nei Paesi dove non era riuscito ad affermarsi con l'appoggio dei carri armati, qualcuno pensava davvero di realizzarlo grazie a qualche squadra di ex operai e studenti fuori corso surriscaldati dalla mitologia dell'insurrezione?… Il fanatismo che viene dal popolo o afferma di agire nel nome del popolo ha il potere di risvegliarne uno di segno opposto, forse ancora più tenace e implacabile, cioè il fanatismo snobistico, e questo in fondo era Quell, un fanatico, sì anche lui lo era, esattamente come quelli che gli avevano sparato.»

Un colpo al cuore è il paragrafo che con poche parole incisive ricapitola l'epoca:
«L'idolo dei mediocri non era ancora il mediocre. Ancora i mediocri sognavano, e sognavano di non essere più mediocri, e almeno in alcuni momenti della loro esistenza poteva accadere loro di essere integri e liberi come l'aria e il sole. Era l'epoca stessa a permetterlo. Era un'epoca radicale e fanatica durante la quale nessuno si accontentava di quello che era, nessuno era soddisfatto di quello che faceva o del modo in cui lo faceva. Bisognava andare oltre e afferrare la pienezza.»

Con la figura del “professor” Berio l'autore presenta l'intellettuale velleitario, ossia il fanatismo di chi non riconosce altro valore al di fuori di una branca della cultura e della propria visione. Un a tipologia piuttosto diffusa, e l'attenzione dedicata rende il libro anche una sorta di manuale sugli intellettuali rivolto agli intellettuali. Berio è la figura centrale in due capitoli, con tanto di sproloquio provocativo che rievoca bene anche il clima dell'epoca. Cede poi il passo a Lenia, sua figlia, che è il suo contraltare, e che sfiorerà Nico nutrendo qualche esile speranza per i due.
Un libro che somiglia a una matrjoška. “Cuori fanatici” di Edoardo Albinati
Un lungo capitolo è dedicato alla famiglia di Nanni, a sua moglie Costanza e alle tre figlie. Il titolo Capelli evoca un rito introdotto da lui, quello del taglio e della spazzolatura dei capelli delle figlie, pregno di gesti che seguono l'individualità delle bambine. Nanni è un fanatico dell'amore per la moglie e per le figlie, Costanza invece combatte strenuamente per conservare un proprio spazio inaccessibile alla famiglia, dove coltivare anche l'adulterio. Asciutte anamnesi si alternano a righe poetiche come queste:
«... i fili per stendere brillavano contro il cielo, non regolari, non dritti e precisi come righe di pentagramma tra un albero e l'altro, ma disegnando nell'aria rigide onde e gobbe, lungo cui erano disposte le macchie colorate delle mollette: il verde, il giallo, il celeste, giallo-rosso, giallo-celeste-giallo, secondo pure frequenze ottiche.»

Non manca un inciso sferzante dello scrittore sugli scrittori:
«È un tratto antico dello scrittore italiano: anche scrivendo un sonetto sul cane di casa, è certo di aver dato una mano a migliorare il mondo, di aver sfamato i poveri, accelerato la rivoluzione dei giusti, dato uno scrollone al regime marcio. Ogni volta che afferra la penna per buttar giù una storiella, pretende che gli altri ci vedano il suo impegno per la soluzione del problema della vita.»

Il capitolo centrale è l'anello di congiunzione fra terroristi e vittime, che a volte sono gli stessi terroristi. La piramide narrativa arriva così a compimento, il lettore tiene ormai in mano le fila della trama. Con la figura implacabile della terrorista, che non può che essere malata di fanatismo, Albinati, capace di descrizioni e ritratti lunghi e molto dettagliati, qui ci insegna come anche con una sola frase lapidaria – «Alessandra decise che si faceva prima a sparare qualcuno» – si possano centrare azione e personaggio. Questo capitolo ospita anche il primo dialogo del libro, tanto indimenticabile quanto raccapricciante.

In Cuori fanatici una storia tira l'altra, qualcuna è tragica, quella che si svolge nella città meridionale alla confluenza dei due fiumi addirittura epica, altre contorte, improntate sull'ironia, sul cinismo, sul grottesco o sull'ingenuità. L'interno di ciascuna nasconde sempre qualcos'altro, e il libro ricorda una matrjoška lavorata nei minimi dettagli. Ognuna veicola anche la visione di un segmento, un'opinione, un approccio, una presa di posizione. Albinati presenta il ritratto di un'epoca, di una serie di personaggi fanatici che in quell'epoca hanno vissuto il loro fanatismo nei modi descritti, ma che in altre epoche sarebbero stati sempre fanatici, perché possessori di cuori fanatici, caso mai in forme diverse.
Un libro non difficile da leggere ma non facile da afferrare, che non delude le aspettative di chi ha letto La scuola cattolica.

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Marina Stepnova, Le donne di Lazar'

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TRE DONNE E IL VENTESIMO SECOLO RUSSO

Intervista a Corrado Piazzetta, traduttore di “Le donne di Lazar’” di Marina Stepnova

di  25 febbraio 2019

Copertina di Le donne di Lazar di Marina Stepnova
«Nel 1985 Lidočka compì cinque anni e la sua vita andò a rotoli. Era la prima volta che si incontravano tanto da vicino, Lidočka e la sua vita, e fu per questo che entrambe fissarono nella mente con un’intensità vertiginosa ogni piccolo, salato, umido dettaglio della loro ultima estate felice». Così recita l’incipit folgorante di Le donne di Lazar’ di Marina Stepnova (Voland, 2018)  e la scrittura potente non verrà mai meno nelle più di quattrocento pagine di questo romanzo russo. Attraversa per lungo e per largo il terribile, sanguinario ma anche magnifico ventesimo secolo in cui la Russia prima, e l’Unione Sovietica poi, hanno avuto un ruolo determinante.
Camminiamo nella Storia seguendo le tracce del geniale fisico nucleare di origini ebraiche Lazar’ Lindt nato nel 1900: il suo destino si rispecchia nelle vite di tre donne a lui legate in qualche modo. Tre donne vicine e allo stesso tempo lontane, persino estranee: Marusja, moglie del professore che lo scopre e lo avvia alla carriera di scienziato, una signora trent’anni più grande di Lindt che gli fa da amorevole madre e che lui ama con un amore che va ben al di là di quello filiale; Galina, che sarà costretta a sposarlo giovanissima quando lui è già vecchio; infine Lidočka, la nipote che Lindt non ha mai incontrato. Sono loro le donne del titolo, sono e non sono di Lazar’.
Marusja, la moglie del mentore di Lindt, è la figura cruciale della lunga esistenza di Lazar’. Lei lo accoglie appena diciottenne, fuggito a Mosca dalla provincia probabilmente in seguito a un pogrom, subito dopo la Rivoluzione d’ottobre. Marusja non ha avuto figli e non sperava più di poterne avere, Lindt le regala la maternità che la natura le ha negato e lei lo ricambia con il calore della casa, l’affetto, la bellezza, la cura della sua persona. Marusja è l’icona della donna russa ottocentesca, è sempre prodiga e disponibile, e aiuta donne e bambini privi di mezzi durante la guerra. Lazar’ Lindt cercherà lei in tutte le donne, e per magia Marina Stenova riuscirà a farla rivivere in sua nipote Lidočka.
Galina Petrovna finisce nelle grinfie di Lindt, osannato e onnipotente sessantenne. Con un intrigo la ragazza è catapultata tra le sue braccia da fidanzata di un ragazzo semplice, entrambi senza particolari ambizioni se non quella di realizzare il più banale dei sogni d’amore. Galina è una nuvola rosa, che da un giorno all’altro si trova al centro della nomenklatura, e madre di un bambino che non può amare, perché frutto di una imposizionedi violenza anche se commessa con amore e tenerezza. La ragazza sentimentale diventa un’adulta anaffettiva, dura e calcolatrice, un uccello di paradiso in gabbia. Neppure la nipote di cinque anni, l’orfana di suo figlio, fa breccia nel suo cuore. Non la può abbandonare perché porta il suo stesso cognome, ma se ne prende cura solo con il denaro, che ha in abbondanza.
Perduti i genitori all’età di cinque anni, Lidočka cresce in ambienti elitari disciplinati, colti, ma privi di calore. Può diventare ballerina, ha talento ed è capace di sopportare anche la dura disciplina, ma desidera soltanto affetto, una casa, una famiglia. Tre donne, tre vite, tre periodi storici, un affresco che a tratti ricorda Tolstoj, Nabokov e Ulickaja, ma anche Il dottor Živago di Pasternak.
Le donne di Lazar’ (2011) è il secondo di tre romanzi di Marina Stepnova. Con questo libro si è classificata terza al più prestigioso premio letterario russo – il Bol’šaja kniga – ed è stata finalista fra gli altri ai premi Russkij Booker, Nacional’nyj bestseller e Jasnaja Poljana. Il libro ha ottenuto un ampio consenso di critica, ed è stato tradotto in ventiquattro lingue.

Più del recensore, può raccontare e svelare il libro il suo traduttore, perché il traduttore con esso trascorre a volte anche molti mesi e si immerge in quelle profondità che il lettore semplice raramente può o vuole toccare. Ho avuto l’opportunità di porre qualche domanda al traduttore di questo splendido libro, Corrado Piazzetta, e lui ha risposto volentieri, anche a domande che non riguardano strettamente Le donne di Lazar’, ma possono interessare in generale gli amanti della letteratura russa.
Caro Corrado, sapevo della tua passione per la lingua russa, ti conoscevo però soltanto come abilissima voce italiana di Penelope Lively. Il romanzo monumentale della Stepnova metterebbe in difficoltà anche un traduttore molto preparato e di lungo corso, quindi ti faccio i miei complimenti più sinceri. Com’è caduta la scelta di un esordiente, anche se esperto traduttore in un’altra combinazione linguistica, su questo libro che porta in sé tutte le difficoltà che una traduzione editoriale può rappresentare?
Cara Andrea, innanzitutto ti ringrazio molto dei complimenti. Come dici tu, la lingua e la cultura russe sono sempre state una mia grande passione, nata molto tempo fa quando mi imbattei per puro caso in un corso di russo trasmesso da quello che allora si chiamava Terzo canale (la neonata Rai Tre). Sempre in quegli anni è sbocciato anche l’amore per l’altra mia grande passione linguistica, ovvero l’inglese, che come giustamente ricordi è stato per anni la mia principale lingua di lavoro (e ti ringrazio di aver citato Penelope Lively, autrice che ho amato molto). In tutto questo tempo, però, il mio desiderio di lavorare con scrittori russi non si è mai spento (e, a dire il vero, oltre dieci anni fa ho tradotto per Guanda una serie di microracconti di un giovane autore russo poi finito nel dimenticatoio, per non parlare di La mite di Dostoevskij che mi era stata commissionata da una piccolissima casa editrice fallita poco prima che la mia traduzione vedesse la luce). I miei contatti col mondo editoriale, però, erano prevalentemente con case editrici che non lavorano mai o quasi mai col russo, e quindi ho ritenuto che il miglior modo per trovare nuovi canali fosse quello di presentarsi con una proposta inedita. Tutto ciò per dire che quando ho scoperto l’esistenza di Marina Stepnova, e ho visto che i suoi romanzi non erano ancora approdati in Italia, ho pensato che potesse essere un’autrice interessante da proporre. Come primo approccio, ho scelto Ženščiny Lazarja(titolo originale di Le donne di Lazar’) perché dalle poche righe di sinossi mi sembrava una vicenda che mi sarebbe potuta piacere. E così è stato, il libro mi ha convinto fin da subito, sia per la portata della storia, sia per la costruzione dei personaggi, sia per la lingua sontuosa e duttile di cui l’autrice dispone con grande maestria; lo stile della Stepnova mi ha davvero conquistato, la sua ricchezza, la sottile ironia che pervade l’intero racconto, anche nei momenti più tragici. Mi sembrava un’opera capace di incontrare i gusti di un pubblico più ampio del ristretto numero di addetti ai lavori, oltre che una bella sfida dal punto di vista del mio lavoro di traduttore. Queste le ragioni per cui ho deciso di intraprendere il non facile cammino di ricerca del referente giusto: ho dovuto bussare a un po’ di porte e ho incontrato varie difficoltà (i russi, specialmente se contemporanei, hanno vita più ardua in Italia, per varie ragioni – vuoi perché ritenuti, spesso a torto, poco allettanti per i lettori, vuoi perché sono poche le case editrici con editor che conoscono la lingua, e quindi in grado di revisionare adeguatamente le traduzioni), ma alla fine sono approdato a Voland, che all’inizio non avevo preso in considerazione perché non avevo mai avuto modo di collaborarci prima d’allora. Come ben sai, è un editore piccolo, ma molto attento alla qualità e pronto ad accogliere proposte nuove; oltretutto, come suggerisce il nome stesso, da Voland la letteratura russa è la benvenuta, perciò le donne di Lazar’ hanno finalmente potuto trovare la loro casa italiana.

Marina Stepnova utilizza vari registri, fa molti riferimenti culturali e lavora con un lessico particolarmente ricco. Da traduttore, come hai vissuto tutto questo ben di dio?
Come accennavo prima, è stata una bella sfida. La varietà di registri, la generosità con cui la Stepnova attinge al vasto lessico russo, lo stile spesso fiorito, i gergalismi, i numerosi riferimenti a fatti storici o a figure realmente esistite: tutto questo mi ha dato parecchio filo da torcere. Sono infinitamente grato alla rete per la quantità di fonti a cui consente di accedere con pochi clic, risorsa oramai imprescindibile per i traduttori: poter consultare in un attimo dizionari monolingue di ogni tipo, corpus letterari, esempi vivi di fraseologie, di modi di dire; distinguere citazioni letterarie da creazioni originali dell’autrice; verificare l’esattezza dei riferimenti storici (a onore della Stepnova – e, immagino, della sua redazione –, sempre precisi fin nei minimi dettagli). Tutto ciò non solo ha reso un po’ meno arduo il mio lavoro, ma mi ha permesso di migliorare l’accuratezza della traduzione, di ridurre il margine di dubbio e di lasciare meno spazio alle interpretazioni. E sono infinitamente grato alla stessa Stepnova, con cui sono stato in contatto fin da prima di iniziare il lavoro, e che si è sempre dimostrata più che disponibile a venirmi incontro e a rispondere con una rapidità spesso sorprendente alle mie non poche domande. È stata un’esperienza molto bella anche dal punto di vista umano, perché i nostri scambi mi hanno consentito non soltanto di ottenere un risultato di qualità migliore, ma anche di conoscere una bellissima persona, di trasformare un rapporto di lavoro in amicizia. Forse a questo ha contribuito anche la grande passione della Stepnova per l’Italia (lei e il marito hanno una casa in un paesino della Toscana, dove vengono spesso a trascorrere le vacanze, e infatti proprio in occasione di quest’ultime ferie natalizie abbiamo avuto modo di conoscerci finalmente di persona e di organizzare un paio di presentazioni del romanzo) e la sua gioia per il fatto che il Paese da lei tanto amato abbia finalmente deciso di pubblicarla.

Ti sei affezionato a qualcuno dei personaggi del libro, e se sì, a chi e perché?
Tra i personaggi principali, il mio preferito è senza dubbio Galina Petrovna. È un personaggio tragico, una ragazza che viene strappata alla sua vita e ai suoi sogni per ritrovarsi costretta a vivere accanto a un uomo anziano che detesta, rinchiusa in un mondo elitario fatto di privilegi ma di aridità sentimentale, che nemmeno la nascita di un figlio prima, e l’arrivo inaspettato di una nipotina poi, riescono a scalfire. La conosciamo all’inizio del romanzo già donna matura, algida, insensibile, a modo suo spietata, ma nel corso della storia scopriamo gradualmente la sua vicenda e il suo dramma, cosa che dà al personaggio uno spessore tragico, appunto, e ci fa quasi simpatizzare per lei, nonostante la sua alterigia, gli abiti costosi, i gioielli, i profumi, e la coltre di ghiaccio che le soffoca i sentimenti. Tra i personaggi minori, invece, mi sono rimaste nel cuore due coppie: i bambini Isaak ed El’vira/Elečka, che si incontrano da sfollati nella casa di Čaldonov e Marusja durante la Seconda guerra mondiale, e che poi passeranno insieme il resto della vita (fra l’altro, sono gli unici personaggi del libro ispirati a persone reali: i genitori dell’autrice, infatti, si conobbero in circostanze analoghe a quelle di Isaak ed Elečka ed ebbero una vita coniugale altrettanto lunga), e la coppia degli Carёv, i due giovani ricercatori che Lidočka conosce da adulta in quanto abitano nell’appartamento in cui viveva da piccola con i genitori, prima di rimanere orfana e di finire in casa della nonna Galina Petrovna. Di quest’ultimi ho apprezzato particolarmente quel loro incarnare le migliori qualità dell’intelligencija russa, la loro attenzione alla sostanza più che all’apparenza, il loro calore e il loro gioire per le piccole cose quotidiane: tutte qualità che mi hanno fatto riscoprire parte del motivo per cui mi sono innamorato di quel popolo, e che purtroppo trovo sempre meno negli esponenti di quello stesso popolo, con cui talvolta mi capita di avere a che fare in questi ultimi anni.

Un traduttore ha sempre un quadro piuttosto completo della letteratura della lingua dalla quale traduce, quindi è anche una fonte di consigli letterari. Da intenditore, te la sentiresti di indicarci qualcuno fra gli autori e i titoli russi pubblicati in italiano
Quando si parla di autori russi, il riferimento immediato è ai grandi nomi della letteratura classica – e giustamente, aggiungerei: i giganti dell’Ottocento russo, da Puškin a Tolstoj e a Dostoevskij, come pure maestri del Novecento quali Bulgakov o Pasternak o Solženicyn, rimangono figure imprescindibili, e le loro opere dei capisaldi la cui potenza continua ad affascinare ogni generazione (e, a questo proposito, mi permetto di segnalare la nuova traduzione di due fra i capolavori più iconici dell’Ottocento russo, Anna Karenina e Guerra e pacedi Tolstoj, ritradotti per Einaudi da due valentissime traduttrici, rispettivamente Claudia Zonghetti ed Emanuela Guercetti, nonché la pubblicazione della versione integrale di Il primo cerchio di Solženicyn, tradotto per Voland dall’ottima Denise Silvestri). Ciò non significa, tuttavia, che la letteratura russa contemporanea non offra nomi e opere di qualità: penso, ad esempio, a Zachar Prilepin, o a Ljudmila Ulickaja, o al premio Nobel Svetlana Aleksievič, o a Vladimir Sorokin. Personalità molto diverse fra loro ma di indubbio valore letterario, e che non sempre da noi riescono ad avere l’attenzione e il riconoscimento che meritano. Spero cheil lavoro di noi traduttori e delle case editrici che scelgono di puntare in quella direzione porterà a una sempre maggiore conoscenza dei “nuovi russi” (e uso l’espressione nel suo senso migliore), e spero pure che di questa schiera farà parte anche Marina Stepnova.

Spero che Le donne di Lazar’ sia solo l’inizio di una brillante carriera di traduttore dal russo. Hai già in cantiere qualche novità e qualche titolo che ti piacerebbe tradurre o che ritieni debba comunque essere tradotto in italiano?
Tradurre dal russo, nonostante l’offerta tutt’altro che irrilevante, non è una strada molto agevole, per  i motivi di cui si parlava prima. Comunque sì, ho qualcosa di nuovo in ballo, ma le notizie non sono ancora definitive e quindi, per scaramanzia, preferirei non parlarne. In generale, cerco di tenere gli occhi aperti su quello che arriva dalla Russia, in particolare su opere o autori che propongono visioni alternative, o in ogni caso al di fuori dagli schemi più battuti: credo che, in quest’epoca di nuovi conformismi, sia importante mantenere uno sguardo capace di osservare il mondo da punti di vista trasversali, uno sguardo che sappia rendere la realtà nelle sue infinite sfaccettature, magari anche quelle più scomode, quelle che tendono a essere ignorate se non osteggiate dal discorso ufficiale. Recentemente mi sono imbattuto in un’opera alquanto originale, una “autobiografia” di Gesù Cristo a opera di un autore, Oleg Zobern, che unisce erudizione teologica a uno stile dissacrante e ironico, e ci presenta un Cristo profondamente umano, che con i suoi metodi ben poco ortodossi – e talvolta a un passo dalla blasfemia – si avvicina all’essenza del suo messaggio più di quanto non facciano le narrazioni canoniche. Mi ha molto colpito il fatto che un’opera del genere sia stata pubblicata nella Russia di oggi, dove il peso della religione – e soprattutto della Chiesa – è molto più forte che in passato, e perciò mi piacerebbe che questa voce potesse avere un’eco anche al di fuori dai confini patrii. Se non dovesse andare in porto la proposta cui accennavo prima, potrei considerare questa autobiografia sui generis come una possibile proposta da presentare in giro. Staremo a vedere.
Grazie a Corrado Piazzetta per le tante informazioni preziose e non resta che augurare buona lettura, Le donne di Lazar’ non è un capolavoro, di opere perfette o quasi perfette ce ne sono molto poche, ma è sicuramente una lettura di ottimo livello.

L'articolo su FLANERI'
(Marina Stepnova, Le donne di Lazar’, trad. di Corrado Piazzetta, Voland, 2018, pp. 448, € 20.00)

“Ruta Tannenbaum” di Miljenko Jergoviċ

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Un romanzo che sembra un quadro di Chagall. “Ruta Tannenbaum” di Miljenko Jergoviċ

Ammirando le opere di Marc Chagall qualche volta mi è venuta spontanea la domanda su come il maestro russo avrebbe scritto, se invece della pittura avesse scelto l'arte della parola per riprodurre il suo mondo. Ruta Tannenbaum, il romanzo dello scrittore bosniaco Miljenko Jergoviċ, fin dalle prime pagine mi ha dato l'impressione di avere a che fare con una scrittura che ricorda molto da vicino i quadri di Chagall. Ricca di metafore, di un’inconfondibile impronta lirica, eppure profondamente legata al mondo reale, al concreto, e rigorosamente attinente all'universo ebraico.
Nella sua nota conclusiva al romanzo l'autore chiarisce che avrebbe voluto scrivere la biografia di Lea Deutsch, un'attrice bambina croata di origine ebraica, vittima della Shoah ad appena sedici anni, non avendo trovato abbastanza materiale ma la chiara volontà di dimenticarla, ha optato per una biografia fittizia, con figure di secondo piano esistite nella realtà. La trama si svolge a Zagabria fra le due guerre mondiali, la casa dei Tannenbaum è collocata nella via in cui visse Lea Deutsch, e Jergoviċ descrive i bei palazzi austroungarici del quartiere così come li poteva vedere Lea, figlia unica della curiosa coppia Tannenbaum. Anche se in fondo a lei l'autore riserva poco spazio, perché la figura principale è il padre dalla doppia personalità e la vera protagonista è la Storia di quell'area geografica, a partire dalla dissoluzione della monarchia austro-ungarica all'ascesa del nazismo. Il romanzo vuole essere «una piccola pietra sulla soglia della sua casa [di Lea Deutsch], visto che altra tomba lei non ne ha». E già che l'autore dichiara che «i miei pensieri su Ruta Tannenbaum sono stati accompagnati dalla Quinta, Settima, Tredicesima e Quattordicesima Sinfonia di Dmitrij Šostakoviċ», è consigliabile seguire il suo suggerimento e accompagnare la lettura dalla sua selezione musicale. Perché funziona, è la sua colonna sonora ideale.

Prima di inoltrarci nel libro è doveroso notare e complimentarsi con la casa editrice Nutrimenti per la menzione del nome del revisore della traduzione (Riccardo Trani), dell'impaginatore (Emmanuela Nese) e dell'art director (Ada Carpi) che hanno contribuito alla nascita del libro. Figure molto importanti, eppure troppo spesso rimaste anonime.
Un romanzo che sembra un quadro di Chagall. “Ruta Tannenbaum” di Miljenko Jergoviċ
Salamon Tannenbaum detto Moni è un ebreo assimilato che nel primo capitolo esordisce in una scena grottesca in cui viene punito corporalmente perché non aveva capito un importante passaggio storico. Scrivano in un ufficio, ometto poco intelligente – «Oh Moni, mio caro Moni, il buon Dio non t'ha dato tanto cervello, quanto zafferano c'è nella polenta dei poveri!» – cerca di mimetizzarsi di giorno, ma vive una seconda identità di nobile decaduto di notte, facendosi rispettare e persino benvolere da magliari e delinquenti di una certa leva. Finisce in una storia molto più grande di lui e da quel momento in poi torna a essere solo Moni, un uomo senza qualità, cittadino, marito e padre senza pregi né difetti. Solo la morte, perché vittima consapevole degli ustascia, lo riscatterà e gli conferirà una qualche nobiltà. Non più giovane sposa Ivka Singer, una bella donna non più giovane nemmeno lei, mettono al mondo una bambina prodigiosa che sarà cresciuta e avviata da piccola da una vicina di casa folle quanto può essere folle una figura in un quadro di Chagall. Il marito della vicina di casa, un insignificante e accomodante ferroviere, è invece la parabola dell'uomo mite ma amorale che dopo un involontario battesimo di fuoco abbraccia la causa nazista. Il padre di Ivka, Abraham, incarna il ruolo dell'ebreo profetico, biblico, che nella sua persona unisce il passato e il futuro.
«Poi, sulle prime pagine dei giornali, apparve la notizia che la Germania aveva compiuto l'annessione, e la faccia ottusa di Seyss-Inquart fu abbellita dalla notizia della definitiva caduta della città di Vienna. Abraham Singer era seduto accanto alla finestra a guardare gli enormi alberi dei tempi di Maria Teresa che non avevano ancora perso le foglie, e pensava che nessuno avrebbe mai potuto provare quella sensazione, né annotare nei libri di storia il fatto che lui stava seduto accanto alla finestra a guardare gli enormi alberi dei tempi di Maria Teresa mentre passo dopo passo, annessione dopo annessione, la morte gli si avvicinava. Questa morte diventerà moderna proprio come il cappello di Panama. I vecchi ebrei saranno ammazzati, i giovani cacciati in Africa e la nipote di Abraham avrà l'occasione di diventare una vera tedesca, perché non ricorderà mai di essere stata qualcos’altro.»
Un romanzo che sembra un quadro di Chagall. “Ruta Tannenbaum” di Miljenko Jergoviċ
Il nonno Abraham non avrebbe potuto vederlo perché sarebbe morto prima, in tempo per non essere ucciso anche lui. Ruta non sarebbe potuta diventare una tedesca, nonostante avesse la preparazione e anche la disponibilità alla trasformazione, perché è stata inghiottita anche lei nel vuoto della Shoah.
Pubblicato nel 2006, Ruta Tannenbaum nel 2007 è stato insignito del premio Meša Selimoviċ, un premio che in ogni anno viene attribuito al miglior romanzo in Montenegro, Serbia, Bosnia-Erzegovina e Croatia, e da allora è stato tradotto in tutte le principali lingue straniere. È l'undicesima opera tradotta in italiano di Miljenko Jergoviċ, che in Italia haanche ricevuto il premio Grinzane Cavour per il suo Mama Leone.
L'autore è nato nel 1966 a Sarajevo, in Bosnia, e si è trasferito nel 1994 a Zagabria, in Croazia. Romanziere, poeta, traduttore e giornalista molto prolifico, Jergoviċ è stato definito da Paolo Rumiz il nuovo Ivo Andriċ.


Perché leggere questo romanzo? Perché della Zagabria di quell'epoca si sa poco, ancor meno della minoranza ebraica croata. Perché la trama è interessante, sorprendente, i personaggi sono piuttosto ben costruiti, anche se in qualche caso i contorni non sono precisi e le proporzioni non del tutto indovinate. Perché la narrazione fiabesca e la lingua adeguatamente raffinata fanno breccia nel cuore del lettore. Perché la traduttrice pluripremiata, Ljiljana Aviroviċ, anche questa volta ha consegnato alle stampe un lavoro limpido e prezioso.

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MADAMA DORÉ

Stelio Mattioni, “Il re ne comanda una”

di  6 aprile 2019

Dopo più di mezzo secolo dalla prima edizione di Adelphi, la casa editrice romana Cliquot ha ridato alle stampe – e bene ha fatto – Il re ne comanda una (2019) dello scrittore triestino Stelio Mattioni (1921-1997), scoperto e molto apprezzato da un altro grande triestino, il critico letterario e consulente editoriale Bobi Bazlen. Il romanzo era fra i cinque finalisti del Premio Campiello nel 1969, vinto poi da L’airone di Giorgio Bassani.
«Uno scrittore che mi pare del tutto eccezionale. Non somiglia a nessuno, ha un mondo fantastico proprio e di grande forza, ed è misterioso sul serio, senza nessuna compiacenza fumistica» scriveva di lui Italo Calvino a Elio Vittorini, e questo romanzo ne è testimone con la sua trama che sconfina nel surreale, con protagonisti improbabili che però vestono caratteristiche comuni e verosimili, con la sua ambientazione collocata con tanto di indirizzo al centro storico di Trieste, ma allo stesso tempo avulsa dalla realtà e atemporale. Una pièce teatrale, una favola pirandelliana precisa nei dettagli, vivida e inquietante.
Una giovane donna semianalfabeta, oppressa dal matrimonio con un ubriacone e dai debiti che questi ha contratto, si presenta con le sue due figlie alla porta del creditore di suo marito in cerca di una nuova vita che non può che cominciare con il riscatto dei debiti. La casa del creditore si rivela un microcosmo autonomo e completamente isolato dal mondo, comandato da Lui, il creditore.
Ognuno ha un ruolo in quel mondo a parte che comprende un laboratorio che produce qualcosa di misterioso, un giardino che si rivela una giungla, e un harem che Lui domina con complesse regole erotiche. La figlia più piccola sarà presto risucchiata dal padre che assedia, ubriaco, la casa, per riprendersi le sue donne. La figlia più grande, accomodante e lasciva, si inserisce invece nell’ingranaggio, mentre la madre combatte per ricavarsi un ruolo dignitoso, ma soccombe, e anche quando le si offre la libertà sceglie il mondo chiuso.
Il Sessantotto era anche ribellione femminista e Mattioni si rivela un attento osservatore della condizione femminile. Tina, la protagonista, è priva di mezzi economici ed intellettivi, è anche sola, abbandonata a se stessa. Ciononostante vuole provvedere alle due figlie e cavarsela. La sua fuga è un grido disperato, un atto cieco, e difatti finisce di nuovo in una condizione di sudditanza che non sa più abbandonare. Scopre però la sessualità: dopo quindici anni di matrimonio prova per la prima volta il piacere erotico e sarà questo a trovarle un posto nella gerarchia del microcosmo di Lui. Un mondo alienante e alienato, dove in fondo anche il ribelle tollerato è allineato, dove tutti sono infelici, eppure saggiamente accondiscendenti nei confronti del proprio destino. Perché secondo Mattioni combattere contro la sorte è invano.
I personaggi impensabili e la trama imprevedibile non sarebbero comunque sufficienti per spiegare l’effetto magico che questa lettura esercita sul lettore. La lingua colta, densa e precisa, le scelte lessicali a volte sorprendenti concorrono in misura determinante alla seduzione di quest’opera.  «Mattioni scrive divinamente. La sua lingua è schietta, come quella di un thriller di oggi, ma non troverete una parola fuori posto, una metafora poco efficace, un dialogo noioso, non troverete nemmeno un passaggio confuso» dice Alcide Pierantozzi nella prefazione.
Per descrivere Mattioni molti ricorrono alla definizione “kafkiana”. Claudio Magris, uno dei massimi esperti di letteratura triestina, precisa: «Mattioni è stato spesso definito – anche da me – “kafkiano”, ma la sua surrealtà ha poco a che vedere con Kafka e si inserisce piuttosto in quella tradizione fantastica, puntigliosamente descrittiva e sottolineata di Kubin e di altri, inclini – a differenza di Kafka – a spiegare la realtà oscura piuttosto che a farla vivere nella sua nuda oggettività».

(Stelio Mattioni, Il re ne comanda una, Prefazione di Alcide Pierantozzi, Cliquot, 2019, pp. 248, € 18,00 | Recensione di Andrea Rényi)

La recensione su Flanerì avesse avuto più ragioni di odiare

Sessant'anni di amore non corrisposto. Storia di una donna raccontata da suo figlio

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Era una vecchia quercia, sano fino al midollo anche in punto di morte. È crollato per terra mentre sfogliava, chino sul leggio, una pagina della Sinfonia in Sol minoredi Mozart. Quando lo hanno trovato, stringeva nella mano rigida un brandello della partitura, gli squilli dei corni all’inizio dell’Adagio. Una volta aveva detto a mia madre che la Sinfonia in Sol minoreè il più bel brano musicale mai composto. – Leggeva da sempre le partiture come altri leggono i libri. Di qualsiasi opera gli capitasse tra le mani, arcaica o frivola che fosse. Ma soprattutto andava a caccia del nuovo.»

L'autore, lo scrittore svizzero Urs Widmer (1938-2014), non lo ha mai confermato pubblicamente, ma quest'incipit e in generale il ritratto di Edwin, il grande amore mai corrisposto della madre, conduce al direttore d'orchestra svizzero Paul Sacher (1906-1999), mentre Clara, la protagonista femminile, è con ogni probabilità la parafrasi della madre dell'autore. A lei il figlio scrittore dedica questo toccante requiem pubblicato in Svizzera nel 2000, tradotto per la prima volta in italiano nel 2002 da Eugenio Lio per Bompiani con il titolo L'uomo amato da mia madre, e ora splendidamente ritradotto – con il titolo Il grande amore di mia madre – da Roberta Gado per Keller, che di Urs Widmer nel 2015 aveva già tradotto, sempre per Keller, Il sifone blu, e nel 2017 Il libro di mio padre. Di quel padre che in questo libro compare fugacemente come il ripiego di Clara per tentare di costruirsi un'esistenza sopportabile, un surrogato a quella che lei avrebbe voluto trascorrere al fianco di Edwin.

Edwin è di origini povere e modeste ma con una dedizione e un trasporto tipici solo dei geni, e grazie all'aiuto di un maestro che probabilmente corrisponde alla figura del direttore, compositore e pianista austriaco Felix Weingarten (1863-1942), da analfabeta musicale diventa direttore d'orchestra. Ancora giovanissimo fonda a Basilea la Junges Orchester, che nella vita reale si chiamava Basler Kammerorchester, con un profilo innovatore. Per non seguire pedissequamente gli eventi accaduti, Widmer colloca l'esordio dell'orchestra di Edwin, la Junges Orchester, nel luglio del 1927, invece la Basler Kammerorchester suonò per la prima volta il 21 gennaio dello stesso anno. Nel corso della narrazione tante altre differenze emergeranno fra la Storia e la fantasia dell'autore, ma il filo con la realtà storica non si spezzerà mai.

Sessant'anni di amore non corrisposto. Storia di una donna raccontata da suo figlioClara è figlia unica di un uomo arricchito che perde tutto il Venerdì Nero del 1929, un colpo che per lui sarà fatale e letale. Da un giorno all'altro Clara si ritrova povera in canna e scopre la parentela italiana del padre. Aveva cominciato a sostenere l'orchestra di Edwin da ragazza ricca, continuerà a ricoprire il ruolo di tuttofare indispensabile anche da nullatenente. Ha dei rapporti sessuali con Edwin che però non vuole null'altro da lei, e non la illude neppure.
La carriera di Edwin è in rapida salita, con il successo arriva anche il denaro e in un'orchestra di fama ormai mondiale di Clara ci sarà sempre meno bisogno. Edwin dirige nuove composizioni che entreranno nell'albo delle musiche più innovative del ventesimo secolo.
«In quel periodo lo Junges Orchester annunciò la prima assoluta di una nuova opera di Béla Bartók. Bartók l’aveva scritta per Edwin, su sua commissione. (E nel suo chalet di villeggiatura nei pressi di Adelboden, a essere precisi. Ebbro di felicità, aveva trascorso quattro settimane in una stanza che odorava di legno vecchio, senza mai leggere i giornali. Così si perse 108 diverse cosette, tra cui lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Edwin salì da lui in Rolls per riferirgli l’inimmaginabile. Bartók annuì, scosse la testa, deglutì; ma, ecco, non aveva ancora orchestrato il finale dell’opera e doveva subito rimettersi al lavoro.)»
Edwin passa attraverso le forche caudine del nazismo e della seconda guerra mondiale corazzato della sua musica, sposa una donna ricca e per Clara rimane solo l'omaggio floreale firmato E., che per molti anni le arriva puntualmente il giorno del suo compleanno. L'anno che non lo riceverà più rappresenterà lo spartiacque fra la vita e la morte, seppure non intesa in senso fisico.
Si sposa anche Clara e avrà un bambino che la seguirà passo passo, quasi mendicandone l'amore. I nervi fragili la faranno entrare e uscire da cliniche psichiatriche, finché non ne avrà abbastanza e morirà suicida a ottantadue anni.
Un'elegia, un requiem a una madre, a una donna, che ha investito tutta la sua vita sentimentale in un colosso dell'interpretazione musicale, che però non ha mai provato nulla per lei. Sessant'anni di amore non corrisposto e sessant'anni di storia svizzera ed europea. Un'epopea lirica, coinvolgente e istruttiva, scritta in una lingua brillante, in una tonalità dolente e ironica, compassionevole e distaccata.
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L'articolo SUL ROMANZO

Risonanza dell'amore. “Settembre 1972” di Imre Oravecz

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In principio era
il tu, era il là, era l’allora, era il cielo azzurro, era il sole, era la primavera, era il caldo, era prato, era il fiore, era l'albero, era l'erba, era l'uccellino, era la forza, era il coraggio, era la risolutezza, era la leggerezza, era la fiducia, era l'altruismo, era la ricchezza, era la gioia, era la serenità, era il riso, era il canto, era il parlare, era la preghiera, era la lode, era la stima, era l'affiatamento, era la dolcezza, era la lindura, era la bellezza, era l'affermazione, era la fede, era la speranza, era l'amore, era il futuro, poi il tu è divenuto lei, il là qua, l'allora l'adesso, il cielo azzurro fumo nero, il sole pioggia, la primavera inverno, il caldo freddo, il prato acquitrino, il fiore sterpo, l'albero cenere, l'erba fieno, l'uccellino preda, la forza fragilità, il coraggio codardia, la risolutezza indecisione, la leggerezza pesantezza, la fiducia sospetto, l'altruismo egoismo, la ricchezza povertà, la gioia dolore, la serenità inquietudine, il riso pianto, il canto strepito, il parlare balbettio, la preghiera bestemmia, la lode maledizione, la stima disprezzo l'affiatamento discordia, la dolcezza amarezza, la lindura sporcizia, la bellezza bruttezza, l'affermazione negazione, la fede dubbio, la speranza disperazione, l'amore odio, il futuro è divenuto passato e tutto ricominciava da capo.


Il ritorno nelle librerie di Settembre 1972 di Imre Oravecz è una bella notizia. Le Edizioni Anfora avevano già pubblicato questo romanzo in versi nel 2004. Dopodiché la casa editrice si è rinnovata, ha cambiato anche veste grafica, e ora sta ripubblicando le opere più interessanti del vecchio catalogo. Questo nuovo catalogo tutto ungherese di Anfora è una vera e propria consolazione in questi tempi cupi per l'Ungheria – associare il nome del Paese al suo regime politico è pressoché inevitabile –, ed è finalmente qualcosa di cui un'ungherese di nascita come me può andare orgogliosa in Italia.


Settembre 1972 è uno dei capolavori della poesia ungherese moderna, la copertina di Andrea Kiss e il progetto grafico di Csaba Heltai rendono il volume un oggetto d'arte, la prefazione dell'autore alla terza edizione ungherese lo arricchisce e ne spiega la genesi, e la traduzione di Vera Gheno è davvero lodevole. 
Risonanza dell'amore. “Settembre 1972” di Imre Oravecz
In patria Imre Oravecz (nato il 1943) è considerato il Ferlinghetti ungherese, un autentico innovatore della poesia contemporanea. Uno dei massimi esponenti della letteratura magiara, Oravecz è anche autore di romanzi, è stato redattore, traduttore e professore universitario. Nonostante una feconda produzione successiva, la sua opera più memorabile e più amata rimane Settembre 1972, composta nel 1988.
Si tratta di un romanzo in versi suddivisi in novantanove episodi, sui tormenti di un amore, che però racchiude in sé tante storie d'amore. La trama inizia nel settembre del 1972, da qui è il titolo del poema, quando il grande amore che in realtà unisce più esperienze, e non necessariamente solo dell'autore, è finito, la coppia si è già separata.
Oravecz getta luce sia nella sua prefazione che in un'intervista da lui rilasciata nel 2011 a László Bedecs sulle circostanze della nascita e sulla scelta curiosa del genere letterario. Citiamo da questa seconda:
«All'inizio degli anni Ottanta la crisi del mio terzo matrimonio, la causa legale per la custodia del bambino mi hanno buttato molto giù. Pensavo che in confronto la letteratura fosse solo un gioco, con finalità prive di interesse e significato. Credevo, e non era per la prima volta, che avrei smesso di scrivere. Alla fine il bambino è rimasto con me, l'ho tirato su io, a volte lottando, ma sempre con gioia. La delusione, però, non mi passava e vedevo inoltre che un bambino non può uscire bene da un divorzio. Questa crisi sentimentale e morale ha riaperto le ferite anche dei precedenti divorzi e ha messo in evidenza le umiliazioni mai elaborate. Ho cominciato a scrivere, come fosse un diario, i pezzi di Settembre 1972, inizialmente solo per me, come fosse una terapia. Volevo capire la situazione in cui mi trovavo, e quello che ci era successo. Dapprima mi interessava solo un momento, quello in cui nessuno riesce a immedesimarsi finché non ci si trova, e dopo non riesce a capacitarsi che sia potuto capitare davvero a lui. Sto parlando di una scena che mi torna in mente spesso, quella in cui l'ho trovata dove l'ho trovata, con qualcuno, e la situazione non lasciava spazio a fraintendimenti...»
Risonanza dell'amore. “Settembre 1972” di Imre Oravecz
Poi Oravecz parla della forma:
«...in questa unità mediamente di venticinque righe e consistente di una unica frase seppure più volte composta, ho trovato uno strumento, che grazie alla sua flessibilità strutturale e alla sua apertura linguistica ha aperto orizzonti infiniti. In questo tipo di testo potevano trovare posto tutti gli elementi stilistici, dai termini tecnici alle volgarità, dalle locuzioni pseudoscientifiche allo slang. Quindi ha resuscitato in me lo scrittore che stava per essere annientato dalla slavina sentimentale. Da quel momento in poi ho lavorato scientemente sul libro, che anche oggi considero un romanzo, pur sapendo che la critica ne discute volentieri il genere: se è poesia, poesia in prosa, o semplicemente prosa. Secondo me sono poesie che compongono un romanzo, così come lo è l'Iliade...»


A oltre trent'anni dalla prima edizione, in Ungheria Settembre 1972 rimane uno dei libri più letti e più apprezzati. Auguro buona fortuna alla sua edizione italiana.

Il pezzo Sul Romanzo

Romanzo della follia e della libertà. “Tyll” di Daniel Kehlmann

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Romanzo della follia e della libertà. “Tyll” di Daniel KehlmannQuando leggo qualcosa di veramente buono provo a immaginare cosa ne sarà fra cinquant’anni. Non lo saprò mai perché fra cinquant'anni io non ci sarò, ma molti dei lettori di Kehlmann sì, e con loro voglio fare una scommessa. Scommetto che Kehlmann sarà un autore letto e apprezzato anche nella seconda metà del nostro secolo, e soprattutto per questo libro. Credo che La misura del mondo, e forse qualcos'altro che Kehlmann scriverà dopoTyll (Feltrinelli)accompagneranno più generazioni, ma Tyll sarà anche studiato per l'ingegnosa commistione fra storia e fantasia, e sarà considerato come un caso di scuola della letteratura. Naturalmente contribuisce l'arte della scrittura di cui l'autore austro-tedesco è innegabilmente un grande maestro, ma il motivo principale è che in questo libro Kehlmann ha forzato il romanzo storico come nessun altro prima, creando una commistione molto impegnativa, eppure ben riuscita, in cui le difficoltà non scoraggiano, ma esercitano uno stimolo vitale. Mette il lettore continuamente alla prova e lo costringe a pesare pagina dopo pagina la percentuale di fiction da separare dalla storia vera e propria. Cosa che accade in tutti i romanzi che incorporano una fetta più o meno grande della Storia, dove però il lettore di solito sa che la cornice storica, ovvero la base su cui poggia il romanzo, è autentica. In Tyll questa distinzione è ardua, per non doversi impegnare troppo il lettore può optare per l'interpretazione interamente da fiction, ovvero per il tutto frutto dell'invenzione, ma vedendo comparire comunque persone realmente esistite e avvenimenti storici riportati nei libri di storia non può mai abbandonarsi al piacevolissimo flusso delle parole. Di conseguenza vive il romanzo non da percettore passivo, da lettore che si accomoda, ma con un continuo impegno mentale e anche sentimentale che interiorizza e consolida la lettura, rendendola indimenticabile.

Daniel Kehlmann, “l'enfant prodige della letteratura tedesca”, irrompe sulla scena letteraria mondiale nel 2003 con il suo quinto romanzo, Io e Kaminski (Voland, 2006), e diventa uno scrittore universalmente conosciuto appena trentenne, nel 2005, con il suo romanzo storico La misura del mondo, che solo in Germania vende 2,3 milioni di copie, e nel 2006 è il libro più venduto nel mondo. Seguono poi altri titoli che però non riescono a convincere completamente, fino a Tyll (nell'edizione italiana accompagnato da un per me incomprensibile sottotitolo, Il re, il cuoco e il buffone), che riceve un ottimo riscontro di critica quando il libro odora ancora di stampa, confermato anche dal notevolissimo successo commerciale e dalla rapidità con cui il romanzo viene diffuso in traduzione.
Romanzo della follia e della libertà. “Tyll” di Daniel Kehlmann
Till Eulenspiegel è un eroe popolare in Germania: i suoi sberleffi irriverenti veri e presunti fanno parte della tradizione, spuntano ovunque in mille forme. Dato per vissuto nel Trecento, compare per la prima volta in una raccolta del 1515 e da allora la sua storia è stata rielaborata numerose volte. Ma in fondo non possiamo nemmeno essere certi che sia mai esistito, se non è invece frutto della fantasia popolare depositata nei secoli; un personaggio che gli uomini e le donne vissuti in tempi in cui la scrittura era poco diffusa hanno creato per farsi giustizia, per esprimere il desiderio di fronteggiare, di prendere in giro chi nella vita reale non avrebbero mai potuto neppure sfiorare.
La Guerra dei trent’anni svoltasi fra il 1618 e il 1648, un altro caposaldo della trama di Tyll, è stata pure rievocata in molte opere a partire da Simplicissimus di Grimmelshausen del 1668, uno dei più grandi classici della letteratura tedesca. Parlare quindi di Eulenspiegel e della Guerra dei trent’anni possono rappresentare una novità per il lettore straniero, in nessun caso però per quello tedesco. Che fin da piccolo li ha ben saldi nella memoria e nell'immaginazione.
Romanzo della follia e della libertà. “Tyll” di Daniel Kehlmann
Kehlmann da sempre coltiva un mondo di illusioni, da bambino studiava da mago, non sorprende quindi la sua affezione all'illusionista Till Eulenspiegel, qui e altrove chiamato anche Tyll Ulenspiegel. Il protagonista vissuto nel 1300 in una storia del 1600 è comunque un avvertimento indiretto e schietto: leggere e credere coltivando il dubbio sul piano storico, ma riflettendo sui messaggi subliminali di cui il romanzo è ricchissimo. Tyll è il romanzo della follia e della libertà, in cui chi è ritenuto matto può farsi beffe di tutto. Invece di un racconto lineare l'autore tira dentro personaggi e filoni sempre nuovi che in qualche modo portano avanti anche il percorso di Tyll, fino a renderlo compiuto. Non è lineare nemmeno il piano temporale: la storia va avanti e indietro, eppure non spiazza lettore. Kehlmann ricorre a fonti, tuttavia le usa liberamente: non è fedele agli episodi descritti nel 1515 che è la sua prima fonte, utilizza in modo arbitrario Simplicissimus, e trasforma il romanzo intitolato Thyl Ulenspiegel di Charles de Coster del 1867, la sua terza fonte.
La trama è semplice e molto composita come un quadro di Bosch: Tyll è figlio di un mugnaio che per le sue curiosità e per gli interessi che tenta di coltivare senza mezzi e un'adeguata preparazione incorre nell'eresia. Il caso vuole che incontri dei gesuiti, pietre miliari nella storia culturale europea, che lo fanno condannare all'impiccagione. Tyll è costretto a scappare e porta con sé Nele, una giovane compaesana che non vuole arrendersi al destino che le riserverebbe la vita nel villaggio, e che ricorda la figura brechtiana di Madre Coraggio. Da girovaghi giocolieri percorreranno per lungo e per largo i luoghi della Guerra dei trent’anni, serviranno il Re d'Inverno, e Nele troverà marito prima di invecchiare, separandosi da Tyll. Un romanzo con dentro più romanzi e novelle, picareschi, barocchi, eppure moderni.

Regaliamo Tyll a chi sostiene che il romanzo è morto. E ringraziamo Monica Pesetti per l'eccellente traduzione.

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LA SIBERIA E IL DESTINO FEMMINILE “Zuleika apre gli occhi” di Guzel’ Jachina

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«Questo romanzo appartiene a un tipo di letteratura che credevamo irrimediabilmente perduto con il crollo dell’URSS. In epoca sovietica potevamo contare, infatti, su una nutrita pleiade di scrittori dalla doppia cultura, scrittori figli di una delle tante minoranze etniche dell’impero, ma che sceglievano di scrivere in russo». Inizia con queste parole la prefazione di Ljudmila Ulickaja al romanzo Zuleika apre gli occhi (Salani, 2017), opera prima della quarantaduenne scrittrice tatara Guzel’ Jachina che però mostra una maturità non certo da esordiente in questo libro voluminoso, molto composito, e impossibile da dimenticare.
Sì, in epoca sovietica la lingua russa ospitava molti autori non russi che oltre ad essere grandi scrittori padroneggiavano anche la lingua alla perfezione, come il kirghiso Ajtmatov, o i kazaki Kim e Sulejmenov. Il russo era anche la lingua veicolare che permetteva l’accesso alle opere di quegli scrittori sovietici non russi che preferivano scrivere nella loro lingua madre, come il georgiano Otar Chiladze, ma potevano raggiungere il meritato successo internazionale solo tramite la traduzione russa dei loro libri. Con il crollo dell’Unione Sovietica questo patrimonio si è disperso, grande quindi è la gioia di poter sconfinare di nuovo in un’altra cultura di quell’area, stavolta tatara, con Zuleika apre gli occhiopera pluripremiata e molto apprezzata non solo dalla Ulickaja ma anche da un altro grande contemporaneo noto anche in Italia come Evgenij Vodolazkin.
La trama tocca punti così estremi da sfiorare l’incredibile, ma sappiamo che la dittatura staliniana andava anche ben oltre. Finita nell’elenco dei kulaki, i contadini possidenti, nel 1930 Zuleika viene deportata come una delinquente qualsiasi. Dopo un viaggio durato sei mesi in un vagone bestiame arriva in Siberia dove partorisce, in condizioni inenarrabili, il figlio concepito prima della deportazione. Lo tira su nella taiga, trova se stessa, e trova persino l’amore nella persona del comandante russo che aveva assassinato suo marito. Sembra fiction, eppure la storia poggia su basi solide: è la ricostruzione della deportazione della nonna dell’autrice che elabora quindi insieme una tragedia familiare e una storica, in  uno dei capitoli più vergognosi della storia russa. Il romanzo unisce l’avventura alla quiete narrazione tipica dei grandi classici, ricca di colori, odori, suoni e sfumature sentimentali. Un’opera profonda ed estesa, un caleidoscopio di figure tipiche che rappresentano la società sovietica di un’epoca tragica; un grande romanzo in senso lato, di cui alcune parti potrebbero vivere anche vita autonoma. Il primo capitolo, Un giorno, per fare un esempio: è il quadro della vita quotidiana di una donna tatara qualsiasi, definita all’interno dei recinti costituti dal focolaio e dalla parete della stanza riservata alle donne nella società patriarcale.
Il titolo, Zuleika apre gli occhi, ricorre cinque volte nel corso del romanzo, per contrassegnare le cinque fasi principali della vita della protagonista, che si riscatta con molta sofferenza e con coraggio estremo, tirati fuori non per scelta ma per necessità. Il libro vanta una ricca selezione di allegorie, simboli, parafrasi e episodi surreali. In qualche caso proprio questi ultimi li ho trovati straripanti ed è l’unica nota critica che mi permetto di muovere al libro. Ho trovato straordinaria invece la parafrasi di Il Verbo degli uccelli del mistico e poeta sufipersiano Farid Al-Din ’Attar (morto nel 1221), uno dei capolavori della letteratura persiana, che viene inserita in vari punti della trama, principalmente sotto forma di una favola che Zuleika racconta al figlio. Un’allegoria di una bellezza travolgente, così come il sottinteso inno alla gioia per la vita, una fede nella luce che illumina l’oscurità, una forte impronta positiva che impregnano anche le pagine più tragiche, fino a riuscire a renderle addirittura luminose. Il raro dono di raccontare la tragedia senza deprimere, di insegnare la Storia senza saccenteria.
L’aspetto che colpisce di più nello stile narrativo di Guzel’ Jachina è la plasticità della tecnica cinematografica, la capacità di far vedere e non solo di far leggere. Allevia la fatica del lettore offrendogli solo piacere. È anche merito dell’eccellente lavoro di Claudia Zonghetti, pluripremiata traduttrice di molti autori russi del calibro di Tolstoj, Dostoevskij, Grossman, Bulgakov e Politkovskaja. Solo forse l’autore conosce il proprio testo meglio del suo traduttore che vive in simbiosi con esso anche per molti mesi. In più, il traduttore è anche un appassionato e profondo conoscitore della letteratura che traduce, quindi fonte preziosa di riflessioni, aneddoti, informazioni e suggerimenti. Approfitto dunque della disponibilità di Claudia Zonghetti per passarle la parola, pregandola di parlarci liberamente di Zuleika apre gli occhi e della letteratura delle etnie non russofone della Russia.
Zuleika e le altre:Zuleika apre gli occhi non è solo e soltanto un romanzo (necessario) sulla collettivizzazione forzata e la deportazione di interi popoli (argomenti di cui poco o nulla si sa e si legge, in Italia), e nemmeno è solamente la storia (straordinaria) di una donna fragile con un carico di sofferenze e prove che pochi riuscirebbero a sopportare. Zuleika apre gli occhi è un esempio misurato e straordinario di come la Storia entra nella storia, ma in una combinazione talmente intensa e insieme rarefatta, che in certi punti il confine tra realtà e fantastico è labilissimo (quando non viene proprio scavalcato del tutto), e ci si ritrova immersi in una situazione fuori del tempo, fra antichi usi e strazi moderni, fra personaggi realissimi da un lato e figure al limite della stilizzazione dall’altro (che da tanta stilizzazione, però, traggono la propria poderosa forza evocativa).
È vero, sì: Zuleika è una storia scritta come raramente capita. Precise ma asciutte, le descrizioni accompagnano chi legge in una realtà altra (nel tempo e nello spazio) senza nulla concedere all’esotismo da cartolina, e la narrazione è talmente intima da ricordare la voce calda e profonda dei “fuori campo” dei vecchi film epici. Ha scritto un critico russo che «leggendo di Zuleika che accarezza il naso di un puledro, subito si ha la percezione fisicadella sua mano ruvida e del velluto del manto dell’animale; se Zuleika ha freddo, il riflesso pavloviano del lettore è di rannicchiarsi sotto il plaid; se ha paura, viene fatto di controllare con la coda dell’occhio se c’è qualcuno, alle nostre spalle». Quella di Guzel’ Jachina, insomma, è una scrittura che il romanzo storico non aveva mai conosciuto prima: fresca nonostante l’argomento rovente, agile nonostante il piombo degli eventi narrati, visiva, cinematografica quasi (e dalla cinematografia viene infatti l’autrice), che offre con una leggerezza quasi straniante, a volte, l’orrore di ciò che accade.
Negli ultimi anni ho tradotto con grande curiosità tre romanzi di tre scrittrici profondamente radicate nella loro cultura di origine, ma che hanno guardato alle proprie storie scegliendo il filtro di una lingua “altra”, pur se altrettanto propria. Se per Guzel’ Jachina il tataro era la lingua dei nonni e che con i nonni è scomparsa o quasi, nel caso di Alisa Ganieva (La montagna in festa, la Nuova frontiera), cresciuta in Dagestan, e di Narine Abgarjan (E dal cielo caddero tre mele, Francesco Brioschi editore), armena, entrambe perfettamente bilingui, la scelta del tramite si poneva eccome.
Entrambe hanno usato il russo per dar voce ai propri personaggi, ma entrambe hanno colorato le pagine con innesti dell’altra loro lingua, imponendoci (per fortuna) di aprire gli occhi e le orecchie a lettere e suoni nuovi. Lo stesso, del resto, ha fatto Guzel’ Jachina, che per Zuleika ha attinto a piene mani agli etnoculturemi turco-tatari e al folclore locale.
E di folclore, cibo, spiriti e spiritelli, storie quasi dimenticate, abiti e arredi-madeleine sono piene le pagine di tutti e tre i romanzi, diversissimi fra loro (si spazia dal tema spinosissimo del nuovo Islam caucasico di Alisa Ganieva, alla dekulakizzazione di Guzel’ Jachina, alle catastrofi naturali e umane dell’Armenia di Narine Abgarjan), ma altrettanto uniti da una fortissima volontà di rinascita, di commistione, di mescolanza nel rispetto del diverso e, soprattutto, dal desiderio di conoscenza dell’altro da sé, che del diverso allontana la paura. E il compito della letteratura, del resto, è da sempre questo.

(Guzel’ Jachina, Zuleika apre gli occhi, trad. di Claudia Zonghetti, Salani, 2017, pp. 504, euro 19,90, articolo di Andrea Rényi)

L'articolo sul sito di Flanerì


Che cos’è la traduzione secondo Vladimir Nabokov

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«Chi desidera tradurre in un'altra lingua un capolavoro letterario, ha un unico dovere da rispettare: riprodurre con assoluta esattezza l'intero testo, e nient'altro che il testo. Il termine “traduzione letterale” è tautologico dal momento che qualsiasi altra cosa non è una vera traduzione ma un'imitazione, un adattamento o una parodia.»

L'attività di Vladimir Nabokov, autore che ritengo superfluo presentare, si dispiegava in tre ambiti: scrittura, entomologia e traduzione. Nella collana fondata da Emilio Mattioli che tanta cura e attenzione aveva dedicato alle questioni riguardanti la traduzione, curata ora da Antonio Lavieri, docente universitario traduttologo e traduttore lui stesso, Mucchi Editore ha appena pubblicato la raccolta dei testi inglesi (tradotti in italiano), in cui Vladimir Nabokov dispiega le sue teorie sulla traduzione. Il volume riunisce per la prima volta gli otto testi di Nabokov, e comprende anche l'articolo del critico letterario americano Edmund Wilson, imprescindibile per comprendere la risposta del nostro autore. Il titolo Traduzioni pericolose si riferisce probabilmente al clamore suscitato dalle idee di Nabokov, e alla fine dell'amicizia fra lui e Wilson a causa delle loro divergenze di vedute (e non solo), esplose intorno alla traduzione di Onegin. Il volume è curato dalla traduttrice e ricercatrice Chiara Montini, docente di letteratura francese e studiosa di genetica testuale, multilinguismo e traduzione. Chiara Montini è anche l'autrice della lineare e imprescindibile introduzione ai testi nabovokiani che permette al lettore di orientarsi fra gli articoli esponendone le premesse e offrendone un preciso sommario.
  
Vladimir Nabokov vaticinava di entrare nel Gotha dei letterati immortali con due opere: Lolita e la sua traduzione di Eugenio Onegin di Puškin. Con due storie di abusi quindi, la prima su una minorenne, la seconda in quanto la traduzione in sé è considerata un abuso sul testo originale. Lolita oggi è reputato uno dei capolavori della letteratura mondiale, mentre la traduzione di Eugenio Onegin (in seguito EO) seppure periodicamente ripubblicata, è ritenuta ormai solo un testo di interesse culturale e di studio.
Trilingue – inglese, russo e francese – si può dire dalla nascita, Nabokov inizia a tradurre all'età di sette anni. Traduce Colas Breugnon di Romain Rolland, Alice in Wonderland di Lewis Carroll, poeti francesi e inglesi fra i più grandi, tutto in russo, come anche i suoi primi romanzi e racconti nascono in russo sotto lo pseudonimo di Vladimir Sirin. Comincia a tradurre dal russo all'inglese nel 1940 quando, approdato in America, inizia a insegnare letteratura all'università e le traduzioni già disponibili di certi classici russi non lo soddisfano. EO sarà la sua ultima traduzione, di cui la prima edizione uscirà nel 1964, la seconda, da lui riveduta, undici anni più tardi, nel 1975. In seguito collaborerà solo alla traduzione delle proprie opere con traduttori selezionati, rigorosamente di sesso maschile, perché «sono dichiaratamente omosessuale in materia di traduttori».
Che cos’è la traduzione secondo Vladimir Nabokov
Nabokov affronta EO riesumando il principio della letteralità, della assoluta fedeltà al testo, che per la traduttologia moderna palesa il fallimento del traduttore, e per giunta richiede note in abbondanza. Ne scaturisce un'opera di un’inaudita voluminosità: quattro volumi, millecinquecento pagine che nega la “scorrevolezza”, criterio oggi fondamentale, e aborrisce la teoria diffusa, secondo la quale una buona traduzione è quella che non presenta le tracce del trapianto da una lingua all'altra. «Non ha tutti i torti Wilson quando afferma che nella sua traduzione di EO, Nabokov impedisce a se stesso “di dare libero sfogo alle sue capacità”», asserisce difatti Chiara Montini nella sua Prefazione. Dalla grande varietà di temi toccati provo a estrapolare qualche cenno andando di capitolo in capitolo. Il primo riporta L'arte della traduzione. Testi e poesie del 1941, e ne cito un passaggio che ho trovato particolarmente indicativo sulla figura del traduttore auspicata dal nostro Nabokov.
«A parte gli emeriti imbroglioni, i benevoli imbecilli e i poeti impotenti, esistono, grossomodo, tre tipi di traduttori. Questo non ha nulla a che vedere con le mie tre categorie del male – ignoranza, omissione, adattamento – anche se chiunque rientri in una delle tre tipologie può commettere errori simili. I tre tipi sono: lo studioso che desidera ardentemente che il mondo possa apprezzare quanto lui le opere di un ignoto genio; la scribacchina dalle buone intenzioni; e lo scrittore professionista che si rilassa in compagnia di un confratello straniero. Possiamo dedurre ora i requisiti che deve possedere un traduttore per poter fornire una versione ideale di un capolavoro straniero. Prima di tutto, deve avere altrettanto talento dell'autore che sceglie, o per lo meno lo stesso tipo di talento dell'autore che sceglie... Come secondo requisito, occorre una conoscenza perfetta delle due nazioni e delle due lingue e una dimestichezza perfetta dei dettagli che si riferiscono al comportamento e ai metodi del suo autore anche al contesto sociale delle parole, ai loro usi, alla storia e alle associazioni con l'epoca. E questo ci porta al terzo punto: oltre al genio e alla conoscenza il traduttore deve possedere il dono dell'imitazione ed essere capace di recitare, per così dire, la parte del vero autore impersonandone i vezzi di comportamento e di linguaggio, i modi di fare e i pensieri, con il massimo grado di verosimiglianza.»


Questo capitolo comprende anche i versi ironici, impietosi, eppure non privi di sensibilità, ai quali Nabokov dà il titolo Pietà per il grigio traduttore, scritti nel 1952.
Molto ingegnosa la sua metafora della traduzione come movimento a V: «giù per uno stelo e su per un altro. Questa è vera traduzione.» Il vero traduttore «dovrebbe ricevere somme principesche per il suo lavoro. Svarioni e cantonate dovrebbero essere puniti con multe salate; riaggiustamenti e omissioni coi ceppi.»
Il secondo capitolo si occupa dei problemi di traduzione dell'Onegin in inglese ed esordisce con la pertinente, splendida poesia tradotta da Enzo Siciliano per il volume Poesie pubblicato nel 1962 per Il Saggiatore. Anche in questo testo, scritto nel 1954 e pubblicato per la prima volta nel 1955, Nabokov esprime la sua totale disapprovazione della cosiddetta “scorrevolezza” come pregio di una traduzione. La sua idea di onestà nel tradurre EO prevede una traduzione non in rima, perché impossibile, corredata però con note esaustive e il senso assolutamente letterale del poema. Espone il minuzioso elenco dei problemi incontrati, andando a fondo in ogni anche trascurabile dettaglio.
Il terzo testo del volume è la prefazione a A Hero of Our Time.
«Il lettore inglese dovrebbe essere consapevole che lo stile della prosa di Lermontov in russo è inelegante, è secco e scialbo, è lo strumento di un giovane energico, incredibilmente dotato, veementemente onesto, ma inequivocabilmente inesperto. Il traduttore deve restituirlo fedelmente, per quanto possa essere tentato di compensare le mancanze ed eliminare le ridondanze.»

Il cammino servile. Ancora sulla traduzione di Onegin in inglese a lavoro concluso è il titolo del quarto capitolo, mentre il quinto, del 1964, si intitola Smartellando il clavicordo ed è la bocciatura della traduzione di EO da parte di Walter Arndt. Sono pagine e pagine di meticolose contestazioni di una traduzione acclamata dalla critica e vincitrice della metà del premio di traduzione Bollingen a Yale nel 1963. Nabokov la giudica invece il prodotto di ignoranza e presunzione.
Il sesto testo è Prefazione a Eugene Onegin, del 1964, il settimo è l'articolo del 1966 intitolato Risposta ai miei critici. Nabokov non ha mai reagito alle recensioni, positive o negative che fossero, dei suoi romanzi. «Se invece le critiche ostili non si rivolgono a quegli atti di fantasia, ma a un'opera di riferimento concreta come la mia traduzione annotata di EO, allora entrano in gioco altre considerazioni. Contrariamente ai miei romanzi, EO possiede un risvolto etico, elementi morali e umani. Riflette l'onestà o la disonestà, l'abilità o la negligenza di chi l'ha compilato. Se mi viene dato del cattivo poeta, sorrido; ma se invece mi viene dato dello studioso mediocre, allungo il braccio verso il mio dizionario più grosso.»

LEGGI ANCHE – I più grandi capolavori del XX secolo secondo Vladimir Nabokov


L'articolo è una riposta molto articolata e piuttosto polemica a Lo strano caso di Puškin e Nabokov di Edmund Wilson, apparso su «The New York Reviews of Books» nel 1965, che nel nostro libro è riportato in appendice. Uno dei più importanti critici letterari americani, Wilson era stato il mentore di Nabokov al suo arrivo negli Stati Uniti, e i due per un quarto di secolo avevano coltivato un'amicizia che si può definire stretta. Tuttavia, per motivi indipendenti dalla traduzione di EO, covava già della brace sotto la cenere. Lo scambio che non risparmia colpi anche bassi segna la fine dell'amicizia, come racconta Alex Beam in The Feud. Vladimir Nabokov, Edmund Wilson, and the End of a Beautiful Friendship (Pantheon Books, 2016).
L'ultimo, l'ottavo articolo, Sull'adattamento, del 1969, verte sulla traduzione letterale di una bella poesia di Mandelštam, pubblicata in una raccolta di Olga Carlisle Poets on Street Corners.


Questa pubblicazione rivolta principalmente a chi si occupa di traduttologia, aggiunge documenti fondamentali tradotti in italiano per la prima volta sui principi e sui sistemi che hanno guidato Vladimir Nabokov nelle sue traduzioni. Rappresentano un certo interesse anche per chi voglia solo integrare il quadro del Nabokov scrittore, perché in essi lui dà voce ai suoi gusti letterari spesso sorprendenti, e perché i suoi testi offrono un ricco contributo alla conoscenza della letteratura e della scrittura in generale.
L'articolo su SUL ROMANZO

Un'opera perfettamente compiuta. “L'asino del Messia” di Wlodek Goldkorn

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Un'opera perfettamente compiuta. “L'asino del Messia” di Wlodek Goldkorn

Un'opera perfettamente compiuta. “L'asino del Messia” di Wlodek Goldkorn«Sono un devoto, di più, un fanatico della memoria degli sconfitti e rivendico con tutte le mie forze la dignità della disfatta» è il filo conduttore lungo il quale si dipana la narrazione storica e culturale d'Israele a cavallo fra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta, vista con gli occhi di un giovane ebreo polacco che in Israele da adolescente diventa adulto.
L'antisemitismo non è mai stato estirpato nell'Europa dell'Est, neppure l'immane tragedia della Shoah lo ha cancellato, lo ha solo ammutolito per una manciata di anni. In Polonia il pogrom uccide di nuovo già nel 1946, e i moti studenteschi del 1968 lo risvegliano dal letargo: alcuni leader sono di origine ebrea, in generale gli ebrei sono ritenuti sionisti e revisionisti, e la rinata campagna antisemita costringe circa quindicimila ebrei polacchi a emigrare. Fra loro lascia la terra natale la famiglia Goldkorn, comunisti sionisti che scelgono Israele, un Paese giovane che sta vivendo l'euforia delle conquiste della guerra dei sei giorni dell'anno prima. Questo è il punto di partenza del libro decontestualizzato e caleidoscopico di Wlodek Goldkorn, scrittore e giornalista multilingue, autore già di un romanzo italiano di grande successo, Il bambino nella neve, di cui L'asino del Messia (Feltrinelli) è il seguito ideale.
Approdato sedicenne nella terra promessa, per Włodzimierz, Vladimir in polacco in onore di Lenin, e aspirante Asher (Felice) divenuto subito cittadino d'Israele, inizia il confronto fra aspettative e realtà, ossia fra il deserto simbolo della speranza, dell'ideale sionista e della patria nuova per gli ebrei dell'Europa Orientale, e i boschi della madrepatria che ricordano la persecuzione degli ebrei perché lì cercavano rifugio e lì venivano catturati. Un ebreo della diaspora che porta con sé lo yiddish, che chiama “la lingua assassinata” perché in Israele considerata la lingua di una cultura legata a un passato tragico, di zombie che «minacciavano di contagiare i ragazzi che a piedi nudi calpestavano la terra su cui costruire una patria nuova e sanissima».
Un'opera perfettamente compiuta. “L'asino del Messia” di Wlodek Goldkorn
La famiglia Goldkorn subisce il declassamento in sorte agli emigrati che vengono da condizioni elitarie, e il tipico capovolgimento dei ruoli: i figli si inseriscono più rapidamente e più facilmente nella nuova vita e nella nuova lingua, e diventano loro il sostegno dei genitori. Dopo l'entusiasmo iniziale seguono anni di disillusione, Israele perde la verginità e l'autore racconta la storia del conflitto arabo-israeliano senza infingimenti. Tuttavia l'amore per Israele resiste, semmai la fede nel sionismo subisce qualche smacco. E rimane la passione per le due lingue dell'ebraismo con le rispettive letterature cui in questo libro Wlodek Goldkorn erige un affascinante monumento. Dozzine di pagine offrono saggi della migliore letteratura yiddish altrimenti poco accessibile, e l'autore avvicina autori israeliani già ben noti che però presenta in forma inedita. Ho trovato molto curiosa e illuminante la vicenda di Siakh lokhamim, la conversazione dei combattenti, di Amos Oz, per citarne una.
Un'opera perfettamente compiuta. “L'asino del Messia” di Wlodek Goldkorn
L'asino del Messia risulta un libro raffinatamente inafferrabile fin quasi all'ultimo. Mi spiego meglio: sono tutte limpide e perfettamente comprensibili le tante storie che lo compongono a partire della molto ben riuscita narrazione di un sogno (raccontare i sogni è una delle imprese più difficili in letteratura) al viaggio in Polonia. Ognuna ha un capo e una coda e il lettore può gustarle come aneddoti o stralci di un libro di Storia o di sociologia, con una sempre discreta presenza autobiografica. Tutto molto scorrevole, anche le tragedie pur commovendo conservano una certa nobile serenità e superiorità, e il giudizio di condanna, laddove è presente, non si trasforma mai in rabbia, eppure i motivi non mancherebbero.
Leggendolo si impara tanto, è una delle non molte letture che ampliano davvero l'orizzonte del lettore senza usare toni accademici, tuttavia fino alla scoperta del significato del titolo e all'episodio che porta Wlodek Goldkorn sulla tomba di Ben Gurion non provavo la sensazione di un solido insieme filosofico e spirituale. Dopo sì, L'asino del Messia è un'opera perfettamente compiuta. Non voglio rovinare le bellissime sorprese con uno scialbo riassunto di quello che attende il lettore, anticipo solo un dettaglio non indifferente: fra i tanti personaggi seducenti che popolano le pagine del libro c'è anche l'amico paterno dell'autore, Zygmunt Bauman, e uno dei più grandi della Resistenza ebraica, Marek Edelman. Per me anche solo per loro due il libro meriterebbe la massima considerazione, figurarsi il resto.
L'originale dell'articolo su SUL ROMANZO

IPOTESI DI UNA BIBLIOTECA UNGHERESE Ovvero cosa si perde il lettore italiano

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IPOTESI DI UNA BIBLIOTECA UNGHERESE

Ovvero cosa si perde il lettore italiano

di  10 ottobre 2019
Copertina di Peter Nádas
L’ungherese è una lingua agglutinante, del sottogruppo ugrico delle lingue ugro-finniche; lingua madre di circa tredici milioni e mezzo di persone fra Ungheria e paesi confinanti: si tratta della lingua non indoeuropea più parlata in Europa. È ricca, capace di esprimere anche le sfumature più sottili, con una produzione secolare di eccellente letteratura e poesia, sorprendentemente versatile e musicale. Possiamo parlare di letteratura ungherese già nel Duecento, e risale al 1367 la fondazione della prima università ungherese a Pécs.
La curiosa storia della fortuna della letteratura ungherese in Italia richiederebbe uno studio a parte, e poiché esistono scritti approfonditi di validi specialisti sul tema, desidero mettere in risalto solo un criterio determinante nella scelta degli editori italiani: la disponibilità del libro che si intende far tradurre in italiano in qualche lingua veicolare. In caso contrario l’editore, solitamente non in grado di leggere in ungherese e nemmeno coadiuvato da un esperto in lingua e letteratura ungherese in casa, si deve affidare completamente a chi il libro glielo ha suggerito, e al traduttore, figure che a volte coincidono. Una preziosa eccezione è rappresentata dalle Edizioni Anfora perché Mónika Szilágyi, la direttrice editoriale, è una italo-ungherese esperta di quella letteratura.
Negli altri casi una ulteriore limitazione è rappresentata anche dalla stessa lingua veicolare perché si tratta prevalentemente del tedesco, mentre le traduzioni in inglese, francese o spagnolo sono decisamente meno numerose. Questa e altre difficoltà di cui non parlo qui per non tediare il gentile lettore, fanno sì che nelle librerie italiane ci siano sempre pochi titoli ungheresi. Ed è un vero peccato, perché la narrativa, la saggistica e la poesia ungheresi si vantano di una vasta serie di opere che il lettore italiano saprebbe ben apprezzare. Questo scritto desidera presentare, senza pretesa di completezza e, al contrario, tralasciando sicuramente molti libri ugualmente se non addirittura più meritevoli, alcuni titoli che potrebbero o addirittura dovrebbero trovare posto sugli scaffali delle librerie italiane. Una scelta arbitraria, l’ipotesi di una piccola biblioteca di autori contemporanei. Non includo opere classiche per motivi di spazio, anche se ce ne sarebbero numerose belle e molto interessanti, mondi che troverebbero sicuramente una buona accoglienza.
Fortunatamente ci sono autori ungheresi contemporanei o del secondo Novecento già ampiamente tradotti in italiano, fra questi il premio Nobel Imre Kertész, Sándor Márai, Magda Szabó, Péter Esterházy, e qualcosa anche di László Krasznahorkai, molto apprezzato all’estero e insignito del Man Booker Prize. Péter Nádas, in odore di Nobel da anni, aveva avuto un breve periodo luminoso con ben cinque opere nelle librerie italiane, scomparse però per sfortunate vicende editoriali. Nádas aspetta di essere riscoperto, la sua straordinaria scrittura è un bene dell’umanità, e spero ardentemente che insieme a tante sue opere un giorno sarà disponibile anche in italiano il suo indiscusso capolavoro monumentale del 2005, Párhuzamos történetek (Storie parallele).
Altre autrici e altri autori vivi e fortunati in patria, tradotti anche in più lingue, hanno visto la luce con uno o due titoli in Italia, come per esempio Zsuzsa Rakovszky, Noémi Szécsi, Edina Szvoren, Miklós Vámos, László Darvasi, György Konrád, György Dragomán, György Spiró, Ádám Bodor, Róbert Hász, Imre Oravecz e Attila Bartis (i nomi sono rigorosamente in ordine sparso), ma altri loro titoli aspettano pazientemente la traduzione italiana. Esiste poi un nutrito gruppo di autori mai approdati in Italia, che con una opportuna promozione (che purtroppo manca spesso quando si tratta di libri ungheresi) potrebbe facilmente conquistare i lettori italiani.
Nessuno dei bei romanzi di Pál Závada ha trovato ancora la strada per l’Italia, eppure quest’autore piuttosto prolifico è una garanzia di temi impegnati, qualità letteraria e godibilità, e quindi di successo anche commerciale, in Ungheria. Il suo romanzo Hajó a ködben (Nave nella nebbia), che narra la storia in parte fedele in parte fittizia delle Industrie Manfréd Weisz, il più grande impero industriale ungherese prima della Seconda guerra mondiale, è uscito da poco, ed è già ai primi posti nelle classifiche, come d’altronde era accaduto anche con diversi suoi titoli precedenti. Un impero posseduto da una cinquantina di persone, per lo più ebrei convertiti al cattolicesimo, che nel 1944 fra accordi con gli occupanti nazisti tedeschi tentano di sopravvivere.
Copertina di La pallottola che uccide Puskin di Péterfy
Dopo Halál Budán (Morte a Buda), romanzo a forti tinte sulla storia di Michele d’Aste, il barone italiano morto durante l’assedio e la liberazione di Buda dai turchi nel 1686 all’età di trent’anni; dopo Kitömött barbár (Il barbaro impagliato), che vede protagonista Angelo Soliman, il primo Venerabile africanoGergely Péterfy è di nuovo nelle classifiche magiare con il suo A golyó, ami megölte Puskint (La pallottola che uccise Puškin), la cronaca di un amore fuori dal comune. Anche Péterfy è un romanziere di grande talento, capace di creare un amalgama affascinante fra Storia e fantasia.
Ferenc Barnás non è particolarmente prolifico, passano anni fra una sua pubblicazione e l’altra. Il suo A kilencedik (Il nono), tradotto in inglese e tedesco, presta la voce a chi non ce l’ha, a chi vive in miseria. In questo caso in pieno socialismo, nel 1968. Un ritratto indimenticabile della povertà come condizione umana.
Prima di proseguire con la presentazione di altri titoli, vorrei fare un breve cenno alla ricchissima letteratura ungherese per l’infanzia. Una miniera inesauribile, che coltiva degnamente l’eredità dei Ragazzi di via Pál di Ferenc MolnárFra i tanti autori validi faccio solo due nomi, quelli di Judit Berg e di Dániel Varró, che da molti anni coltivano il genere con ottimi risultati, anche grazie alle illustrazioni, un campo in cui l’Ungheria è alla avanguardia.
Anche le novelle occupano uno spazio molto importante nella letteratura ungherese. Fra i tanti che coltivano questo genere una dei migliori è Krisztina Tóth, poetessa e autrice anche di libri per bambini. Da tempo fra i protagonisti dello scenario letterario nazionale, le sue raccolte sono sempre molto apprezzate dalla critica e dal pubblico. Quest’anno è uscito Fehér farkas (Lupo bianco), un volume di storie catartiche, istanti rubati alla quotidianità che riflettono sul presente politico e sociale.
Fin qui si è parlato di autori di prima fila con una ricca produzione e quotati anche al di fuori dei confini nazionali perché tradotti almeno in tedesco, qualcuno persino in più lingue. Tuttavia vale la pena dare un’occhiata anche all’esordiente Dénes Krusovszky, un caso letterario con il suo Akik már nem leszünk sosem (Quelli che non saremo mai più) con una trama che attraversa generazioni e confini. Un uomo muore in un incidente stradale ad Iowa City nel 1990. Dopo una lite un giovane riparte da Budapest per la sua città natale nel 2013. In una casa di cura nel 1986 un infermiere registra le confessioni di un malato. Nel 1956 una manifestazione a favore della rivoluzione in una città di provincia si trasforma all’improvviso in un pogrom. Nell’estate del 2013 una notte di nozze subisce una svolta inaspettata. Nel 2017 queste tessere compongono un mosaico inconsueto.
A proposito di esordienti: nel 2001 una piccola casa editrice specializzata in letteratura ebraica ungherese pubblica il primo romanzo di Álmatlanság (Insonnia) di Lea Polgár, in seguito tradotto in tedesco, che è una ricostruzione plastica, quasi cinematografica dell’assimilazione degli ebrei ungheresi fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento attraverso una storia d’amore, offrendo una panoramica di quella società che pochi decenni più tardi in gran parte fece una tragica fine. Quegli ebrei assimilati formavano quasi interamente la borghesia e l’intellighenzia ungherese.
Copertina di Ripityom di Vaijda
In conclusione desidero segnalare qualche titolo sparso: non sono bestseller e gli autori non sono fra i più acclamati, ma la loro lettura non solo arricchisce e intrattiene, ma avvicina anche molto alla comprensione dell’Ungheria e della Mitteleuropa in determinanti periodi storici. Il primo è Ripityom di Pierre Vajda, la biografia molto ben raccontata di uno dei più grandi attori teatrali e cinematografici magiari, Pál Jávor, il Clarke Gable nostrano, e il sottofondo è la società e la storia dal primo Novecento fino agli anni Cinquanta. Un tipico destino magiaro, con il titolo onomatopeico che simboleggia il ballo estenuante fino allo svenimento, e anche fare qualcosa o qualcuno a pezzi. Balatoni nyaraló (Casa di villeggiatura al Balaton) di Rudolf Ungváry narra invece le vicende intorno a una casa di villeggiatura di borghesi cattolici in collina sopra il lago dall’Ottocento in poi, con figure fittizie e altre realmente esistite. Una docufiction ben riuscita, pronta anche per essere portata sugli schermi.
Csengőfrász (Shock da campanello) di Dániel Cserhalmi inquadra gli anni del terrore comunista, i primi anni Cinquanta, quando il suono del campanello di casa allarmava tutti, perché poteva essere la polizia politica, con conseguenze anche tragiche.
Amerigo Tot di Péter Nemes narra la vita avventurosa e in gran parte trascorsa in Italia, dello scultore ungherese Amerigo Tot, partigiano della Brigata Garibaldi, amico di Guttuso, Moravia, Morricone, uomo al centro della vita artistica di Roma con atelier in via Margutta, e anche attore cinematografico.
Budapesti Barokk (Barocco di Budapest) di Mihály Dés, prematuramente scomparso un paio d’anni fa, è un vertiginoso carnevale dolceamaro nella capitale magiara di fine Novecento.
Infine segnalo un libro esile nato negli anni Ottanta, ristampato di recente e tradotto in più lingue, dalla penna di un grande traduttore, redattore e lessicografo morto di recente.  A boldogtalan sorsú Rudolf trónörökös (Rodolfo, l’erede al trono dal destino infelice) di István Bart narra i fatti di Mayerling senza edulcorare nulla e nessuno, meno che mai i due tragici amanti, in modo convincente nei contenuti e nello stile.
Altri titoli e altri autori potrebbero ancora menzionati ma forse il lettore si è già convinto che la letteratura ungherese merita attenzione. Perché questa conclusione era lo scopo di questo scritto al contempo corto e lungo.

ORBÁN, UN PRECURSORE DEL “BRAVE NEW WORLD” CHE POTREBBE ATTENDERCI

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A proposito di “Orbán. Un despota in Europa” di Stefano Bottoni


«Come riesce un giovane ungherese di provincia a diventare il dominatore incontrastato della scena politica interna e uno degli uomini più discussi d’Europa? Perché trasforma l’Ungheria in un laboratorio illiberale? Come costruisce e rafforza il consenso interno al suo sistema? Quale partita geopolitica gioca stretto fra le alleanze continentali e le potenze globali? E non da ultimo: perché la democrazia liberale è implosa in Ungheria prima che altrove nell’Unione Europea?».
A queste ed altre domande risponde Orbán. Un despota in Europa (Salerno Editrice, 2019) un saggio accurato, analitico e allo stesso tempo sintetico, dello storico italo-ungherese Stefano Bottoni. Con un linguaggio fluido, trasparente, e scevro da ogni politichese, organizzato in nove capitoli, dotato di una ricca bibliografia e di una indispensabile e molto ben congegnata prefazione, il volume si sviluppa lungo il discorso complesso sul fallimento dell’occidentalizzazione politico-culturale della società ungherese. Ne tratta ogni singolo aspetto come per esempio il controllo sociale delle autorità locali, il ruolo di condottiero spirituale assunto da Orbán, l’interdipendenza della politica europea, la questione migratoria, quella dei rom, della massiccia emigrazione degli ungheresi, in particolare dei giovani, e del rapporto del potere con il mondo ebraico.
Assumendosi l’impopolare compito dell’Orbán-Versteher, «colui che lo critica senza sconti evitando condanne a prescindere», Bottoni ricostruisce la storia ungherese dalla caduta del Muro in poi, presenta il ritratto dell’uomo Viktor, descrive le sue trasformazioni «convinto che la sfida politica e culturale che il sistema Orbán rivolge al mainstream europeo richieda da parte dei suoi avversari uno sforzo di analisi che si sono fino ad ora risparmiati di avviare». Naturalmente il libro offre anche una panoramica degli avversari politici e le ragioni delle loro sconfitte: quadri che vengono trattati senza partigianerie e mistificazioni.
L’autore mette a fuoco la diversità di Orbán rispetto agli altri dissidenti dell’Est che agivano da testimonianza morale, mentre il leader magiaro puntava fin da subito alla conquista di un spazio egemone tramite attività razionali. Chiarisce il ruolo del sistema elettorale misto, maggioritario e proporzionale, che già ben prima dell’avvento del Nostro favoriva i partiti di maggioranza relativa. Sottolinea l’importanza del fattore tedesco e prende in esame il passaggio della politica di Orbán da filoatlantica a filorussa.
E narra la storia intrigante del suo sodalizio con Lajos Simicska, proprietario di un impero mediatico, e le conseguenze della fine della loro collaborazione gomito a gomito. Bottoni delinea tutti gli elementi e le circostanze che hanno contribuito, a partire dal 2010, a tre vittorie elettorali consecutive di Viktor Orbán. Successi e mantenimento dei voti dovuti in gran parte alla straordinaria coesione del gruppo dirigente e della base di Fidesz, il suo partito, che quindi ha permesso di porre fine all’imperfetta democrazia postcomunista e ha generato il sesto modello autoritario ungherese in appena un secolo, il cosiddetto NER, acronimo che in italiano sta per Sistema di cooperazione nazionale.
Stefano Bottoni, già autore di numerose pubblicazioni, è stato testimone diretto, oculare, del processo politico ungherese. Fino a qualche mese fa era anche membro dell’Accademia delle Scienze Ungherese, e quando il governo con un decreto mise sotto controllo l’attività, il budget e i temi di ricerca dell’Accademia, partecipò attivamente alle proteste, abbandonando l’Accademia per andare a insegnare Storia dell’Europa Orientale Firenze, quando si rese conto che le proteste non avrebbero portato frutti.
Con questo libro fornisce un contributo essenziale per la storiografia del modello Orbán, che propugna un’idea alternativa di Europa rendendosi l’avamposto della crisi della democrazia liberale. Sono questioni che ci riguardano molto da vicino, lo testimoniano queste parole pronunciate dal capo di governo ungherese pochi mesi fa: «Nel 1990 l’Europa era il nostro futuro, ora siamo noi il futuro dell’Europa».
Orbán. Un despota in Europa è l’analisi comparata del passato recente, il lucido racconto della nascita di un regime autocratico nel cuore della democrazia europea che credevamo inscalfibile; in poche parole un case study fondamentale non solo per comprendere che cosa è successo e sta succedendo in Ungheria, ma per acquisire consapevolezza dei limiti dei nostri sistemi politici, e per capire che potrebbe accadere anche altrove.
(Orbán. Un despota in Europa, Stefano Bottoni, Salerno Editrice, 2019, 304 pp., euro 19, articolo di Andrea Rényi)

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L'articolo su Flanerì

«Apri, ebreo». Una lettura di angosciante attualità

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Fino a qualche anno fa il nome di Ulrich Alexander Boschwitz, era praticamente sconosciuto, perché lo scrittore tedesco ebreo per metà perì in un attacco navale a soli ventisette anni, nel 1942, con il suo ultimo manoscritto cucito addosso. Alla fine degli anni Trenta furono pubblicati due suoi libri rispettivamente in inglese e in svedese, ma in Germania acquisì notorietà soltanto l'anno scorso, quando Peter Graf editò il testo tedesco originale e lo pubblicò con Klett Cotta con il titolo Der Reisende (Il viaggiatore) che era già apparso sotto lo pseudonimo John Grane in inglese durante la guerra. Boschwitz lo considerava il suo romanzo migliore, e perfettibile con una buona revisione. Nella sua ultima lettera scritta a sua madre il 10 agosto 1942, prima di intraprendere la traversata in mare, parlò della revisione che stava effettuando a questo libro pubblicato nel 1939 in Inghilterra e nel 1940 in America, ma le correzioni andarono disperse e l'autore fu dimenticato, malgrado gli sforzi compiuti da Heinrich Böll per mantenere viva la sua memoria e i suoi libri sugli scaffali delle librerie. Un giorno di qualche anno fa la nipote di Boschwitz fa leggere il romanzo all'editore Peter Graf che rimane colpito al punto da assumerne personalmente la cura e da scrivere una pre- e una postfazione a quella che considera probabilmente la prima elaborazione letteraria della Notte dei Cristalli e delle sue immediate conseguenze.

Il protagonista è un ricco commerciante ebreo tedesco di nome Otto Silbermann che all'inizio della trama cerca di rassegnarsi al fatto che Becker, il suo socio e presunto amico dichiaratamente nazionalsocialista, che a causa delle leggi razziali è stato costretto a nominare titolare della sua impresa, lo sta depredando. Siamo nei giorni immediatamente dopo i pogrom che gli storici chiamano la Notte dei Cristalli per le vetrine frantumate dei negozi. Secondo i calcoli dello storico e scrittore Saul Friedländer fra il 9 e l'11 novembre 1938 i nazisti distrussero 267 sinagoghe e 7500 negozi di proprietà ebraica, uccisero novantuno persone e centinaia commisero suicidio o morirono a causa delle ferite subite durante i tumulti. Trentamila furono internati in campi concentramento.
«Apri, ebreo». Una lettura di angosciante attualità
La situazione peggiora quando qualche ora più tardi un altro conoscente, Findler, offre una cifra irrisoria per l'acquisto della casa che Silbermann intende vendere per lasciare la Germania, e la trattativa viene interrotta bruscamente dall'arrivo di un gruppo di nazisti che devastano l'appartamento. Silbermann intraprende un viaggio interminabile per la Germania, prende un treno dietro l'altro scappando di città in città, sempre più affranto, perdendo tenuta e dignità. Abituato allo stile di vita dell'alta borghesia e privo di quella flessibilità che le circostanze estreme richiedono per la sopravvivenza, cade sempre più in basso fino a perdere il senno.
«Apri, ebreo». Una lettura di angosciante attualità
Nel corso dei suoi spostamenti si imbatte nei rappresentati più vari della società tedesca, in ordinari nazisti e impiegati simpatizzanti, in persone pronte ad aiutarlo, esponenti dei più disparati ceti sociali, e in ebrei terrorizzati. Gioca a scacchi con un nazista che trova umano, flirta con una bella ariana che tenta di confortarlo, e stabilisce rapporti ambigui con altri ebrei che teme e avverte come un pericolo per sé. In questo modo Boschwitz mette in risalto l'aspetto sconfortante della poca solidarietà anche fra gli ebrei colpiti da provvedimenti tragici, in imminente pericolo di vita, e la loro speranza di potersi salvare da soli. Silbermann è perseguitato ingiustamente ma non è un eroe, è un uomo pieno di difetti, lui ne è consapevole, e se ne vergogna pure.

L'ebreo assimilato Silbermann che fino a poco tempo prima era un membro rispettabile e rispettato della società tedesca, veterano della Prima guerra mondiale e proprietario di beni considerevoli, si dibatte tra incredulità, speranza e sconforto. Non ha dato retta ai primi segnali allarmanti, ai quali ha dato seguito invece suo figlio che lui infatti sta tentando di raggiungere a Parigi. Sua moglie ariana si rifugia invece nella propria famiglia d'origine conquistata dalle idee naziste, quindi disposta ad aiutarlo. Silbermann non può più ingannarsi: la sua vita è andata a pezzi, ed è qualcosa che la sua mente avvezza a una vita stabile, sicura, e la sua psiche di persona scaltra solo negli affari ma non malleabile, non sono in grado di sopportare.

L'anno scorso la pubblicazione de Il viaggiatore in Germania, a 80 anni dalla sua nascita, si è rivelata un caso letterario, paragonato alla Novella degli scacchi di Stefan Zweig e a Essere senza destino di Imre Kertész. Il romanzo è intessuto di elementi biografici, di una profonda consapevolezza degli eventi storici e di una certa preveggenza. D'altronde Boschwitz stesso era vittima delle persecuzioni razziali e per evitare il peggio si stabilì all'estero già nel 1935. Ed è uno dei rari scritti che narrano il processo stesso, non solo gli effetti, della distruzione di un essere umano, in questo caso di un ebreo. Con il ritorno sempre meno velato dell'antisemitismo nella nostra società Il viaggiatore di Ulrich Alexander Boschwitz (pubblicato da Rizzoli nella traduzione di Marina Pugliano e Valentina Tortelli) è oggi una lettura necessaria di triste, angosciante attualità. 

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